la Repubblica, 10 giugno 2024
C’è un nuovo equilibrio a sinistra
Giorgia Meloni ha vinto le elezioni, è inutile girarci intorno. Non solo ha tenuto rispetto al 26% delle politiche; secondo gli exit poll, ha persino guadagnato arrivando a superare il 28 per cento. Le altre forze della maggioranza hanno sostanzialmente confermato il loro risultato e anche questo non era affatto scontato. A Matteo Salvini non è andata bene la scommessa di puntare tutto sul nero, sul generale Vannacci e la sua Decima Mas. Ma forse ha evitato così un risultato disastroso. E, per quanto riguarda Forza Italia, orfana di Berlusconi, un anno fa veniva accreditata di un malinconico quattro per cento, con molte profezie di estinzione. Tajani può essere contento. Dunque anche in Italia, come in Francia, in Germania, Belgio e Austria, soffia forte il vento sovranista.
Non bisogna stupirsene perché non c’erano segnali che qualcosa fosse cambiato. Lo scirocco dello scontento, della ribellione antisistema, nel nostro Paese continua a gonfiare le vele a partiti che governano ma è come se fossero ancora all’opposizione. Perché tutto si può dire tranne che Giorgia Meloni non abbia condotto una dura campagna elettorale all’attacco, in prima persona, “io sono Giorgia, sono una del popolo, sono come voi, il potere non mi ha cambiata”, mettendo da premier il suo nome in tutte le circoscrizioni (caso unico in Europa). Una battaglia all’insegna degli slogan cari ai sovranisti, che per lei si sono spellati le mani alla recente convention di Vox a Madrid, quella che ha visto per la prima volta insieme Meloni e Le Pen. Nel segno di un nuovo equilibrio delle destre continentali che, per la prima volta, sognano di poter entrare nel grande gioco di Bruxelles, abbattendo a spallate i portoni della Commissione europea. I cittadini italiani non di centrodestra hanno capito che a palazzo Chigi c’è una presidente del Consiglio che è fiera di non essere amata da metà del Paese, ma per Meloni il voto di ieri è indubbiamente un traguardo significativo. Tanto più che è l’unica tra i leader della destra a registrare un avanzamento pur con la fatica di 20 mesi di governo sulle spalle, con tutte le promesse non mantenute e i più chemodesti risultati concreti ottenuti.
Ma il voto di ieri dice molto anche del centrosinistra. Il Partito democratico coglie il miglior successo continentale nella famiglia socialista. Se la candidatura di Meloni ha saputo trascinare il risultato di Fdi, allo stesso modo la decisione di Elly Schlein di mettere il suo nome come capolista in due circoscrizioni sembra aver fatto bene al Pd. Così come una scelta oculata delle candidature, con un mix di riformisti e radicali, di buoni amministratori e personaggi di rottura della società civile.
Poteva risultare un amalgama indigesto, una cacofonia di voci dal pacifista Tarquinio all’atlantista Picierno. Invece per gli elettori quella apparente debolezza si è rivelata una forza: è stata la rappresentazione di un partito plurale, che ammette il dissenso e appare (forse è l’unico) scalabile, contendibile. Schlein non ha trasformato il Nazareno in un centro sociale, come sostenevano i suoi detrattori, di certo ne ha spostato l’asse più a sinistra. E si è fatta capire. Non si convince quasi un elettore su quattro se non si intercettano bisogni profondi, paure e speranze reali. Una riconnessione anche sentimentale con chi non votava più da anni quel partito, precipitato dopo le ultime politiche fino al 14-15 per cento nei sondaggi.
La crescita del Pd è una parte del più generale rimescolamento interno al centrosinistra o campo progressista. La discesa del Movimento Cinque Stelle era infatti prevista, ma non in questi termini. Le cause possono essere molte, ma alcune sono visibili a occhio nudo. La bassa affluenza al Sud ha sicuramente penalizzato di più Giuseppe Conte che ha proprio nelle regioni meridionali il suo bacino elettorale. I tanti delusi e arrabbiati per l’abolizione del reddito di cittadinanza, ci confidava Conte alcuni giorni fa ospite di Repubblica, invece di riversare la loro rabbia nelle urne se ne sarebbero rimasti a casa rassegnati. E così è stato. C’è poi il fattore guerra. Pur avendo messo l’hashtag #pace nel simbolo, il Movimento Cinque Stelle aveva formidabili concorrenti nel campo pacifista, ormai più affollato di una marcia Perugia-Assisi: da Santoro a Fratoianni-Bonelli, fino ad arrivare al putiniano Vannacci, a Salvini e persino ai ministri degli esteri e della difesa. Tutti uniti contro il “guerrafondaio” Macron.
Gli elettori ex contiani che sono andati a votare questa volta sono però rimasti nel centrosinistra. E non era scontato. Da ciò si spiega la crescita del Pd e lo sbalorditivo risultato dell’alleanza Verdi-Sinistra, data al momento quasi al sette per cento. Ci sarà molto da riflettere per rimettere in piedi una coalizione, ma da domani – spenti i fuochi proporzionali della campagna elettorale – si può iniziare a lavorare. Il modo migliore per ripartire e non farsi abbattere dal vento di destra che soffia sul Continente è guardare allora alle città. Dove, nonostante tutto, il centrosinistra va generalmente bene e, in alcuni casi, benissimo. Tanto che, se non si fosse diviso nelle città più importanti, come a Bari o a Firenze, la vittoria sarebbe arrivata al primo turno.
Una lezione di concretezza e di speranza per il futuro, se solo i leader volessero coglierla. Il discorso vale sopratutto per i liberaldemocratici del centro. Divisi, rissosi e, alla fine, insignificanti.