il Giornale, 9 giugno 2024
Cash, l’uomo in nero torna dal paradiso con un pugno di inni
In fondo all’oscurità, c’è un bagliore. Johnny Cash ha cantato il Male meglio di ogni altro, perché vedeva il buio in tutto quello che facciamo e diciamo. Era un uomo di fede e non giudicava. Conosceva per esperienza le seduzioni diaboliche. Il riscatto era una grazia e Johnny era ansioso di conoscere o riconoscere le parole che lo avrebbero salvato. Cash era famoso per vestirsi sempre in nero. Nera era anche la sua chitarra Martin. A chi chiedeva perché si conciasse come un beccamorto, Cash rispondeva che avrebbe vestito total black fino a quando anche un solo uomo fosse umiliato o perseguitato dalla cattiveria altrui.
Se qualcuno, invece, avesse chiesto chi fosse la persona più importante nella storia, dopo Gesù Cristo, Johnny, l’uomo in nero, avrebbe citato senz’altro San Paolo, l’uomo in bianco. Quando Cash e la moglie June riscoprirono la religione, presero la cosa molto sul serio. Frequentarono corsi sulle Sacre scritture, con tanto di diploma. Johnny disse a June: «Beh, è un inizio, adesso abbiamo gli strumenti per approfondire la Bibbia». Per dieci anni Cash studiò la vita di san Paolo, un uomo col quale sentiva un forte legame. San Paolo era stato un persecutore dei cristiani. Poi un bagliore l’aveva accecato sulla strada per Damasco. In quel bagliore era apparsa una figura umana, Cristo. Il dialogo tra i due, è stato calcolato, durò circa un minuto. Per Cash erano i sessanta secondi decisivi per l’umanità. Da quel momento, san Paolo diffuse la parola di Cristo, cambiando la vita a milioni di persone, a partire da se stesso. San Paolo, però, aveva una «spina nel fianco», sulla natura della quale gli esegeti si sono scatenati. Qualcuno pensa fosse un’insopprimibile passione per le donne. Altri credono fosse malato, forse agli occhi. Per questo viaggiava con l’evangelista Luca, un medico. Altri ancora presumono fosse una metafora per un malessere esistenziale.
Anche Johnny aveva una spina nel fianco. Da ragazzo, negli anni Cinquanta, era diventato una star del country e del rock and roll. Cantava storie «strane». Svitati che uccidono per capire cosa si prova. Innamorati pronti a gettarsi nelle fiamme. Gente che osa e che sbaglia. Era stato arrestato più volte. Abusava di cocaina e alcol. Il successo non diminuiva, anzi, la fama di «maledetto» e di «fuorilegge» sembrava aumentare il fascino di Johnny. Ma il cantante si sentiva male. Molto male. La sua tortura, per quasi tutta la vita, sarà la dipendenza dai farmaci. Tranquillanti per spegnersi. Anfetamine per accendersi. E così via, all’infinito, spesso senza neppure sapere in quale città si trovasse. Dopo una prima, difficile disintossicazione, Johnny, mentre prova a rimettere insieme i pezzi, incappa in un incidente incredibile. Durante una passeggiata nella sua tenuta di campagna, dove circolano liberi animali di ogni tipo, incappa in uno struzzo infuriato. Il pennuto lo assale e lo scaraventa a terra. Cash si accorge di essersi fatto male ma decide di proseguire nel bosco. Vuole andare al suo buen ritiro, una casetta di legno dove scrive le canzoni e ha un piccolo registratore. Ma lo struzzo non ne vuol sapere e sbuca dai cespugli. Johnny capisce di dover vendere cara la pelle e cerca di attaccare con la chitarra. Lo struzzo schiva il colpo e lo restituisce. Cash vola all’indietro. Ha una miriade di costole rotte. Ma soprattutto è letteralmente sventrato. Solo la grossa fibbia da cowboy ferma il becco assassino, salvando Cash. Il cantante oscilla tra la vita e la morte. In coma, ascolta gli infermieri che scommettono sulla sua imminente dipartita. Invece si riprende ma sviluppa una dipendenza da morfina. Torna l’incubo dei farmaci. Per evitare ricadute, si ritira in un ospedale specializzato e si rimette in piedi. Siamo alla fine degli anni Settanta. Per le biografie e per la autobiografia è un «periodo perduto». In realtà Cash riprende in mano e conclude il suo romanzo L’uomo in bianco (Piano B, 2020), l’unico della sua carriera: racconta sei anni della vita di San Paolo, i tre antecedenti e i tre successivi alla conversione. Un periodo del quale sappiamo pochissimo. Ma Cash scrive anche canzoni, nel 1978-1979, rimaste inedite. A fine mese, uscirà Songwriter (nei servizi in streaming si può già ascoltare il singolo Well Alright). È una collezione di brani scritti e incisi lungo la carriera di Johnny mai però pubblicati. Il grosso arriva proprio dal «periodo perduto».
Il figlio John ha ripulito i nastri originali, portando in primo piano la voce e la chitarra, poi ha chiamato i musicisti di suo padre per completare l’album. Operazione in teoria discutibile, ma nella pratica rispettosa, del resto John è stato per decine di anni in studio d’incisione con papà.
È un Cash quasi titubante ma commovente. Lui, autore di decine di singoli entrati in hit parade, stenta a trovare una nuova strada, una nuova collocazione. Non che ne abbia mai avuta una precisa: Nashville, la patria del country, gli ha dato la gloria, ma nessuno si azzarderebbe a negare il primato di Cash nel rockabilly e nel rock’n’roll. Cash arrivò alla Sun records di Memphis subito dopo Elvis Presley, con il quale incise anche un album (erano della partita anche Carl Perkins e Jerry Lee Lewis, tanto per gradire).
Gli anni Ottanta saranno duri dal punto di vista della fama. Cash sembra non essere più rilevante. Poi un giorno, all’inizio dei Novanta, un produttore-genio-guru, Rick Rubin, bussa alle porte di Cash. Ha un paio di idee: levare tutto l’inessenziale per puntare sulla voce arricchita di sfumature dall’età; far interpretare al maestro un pugno di canzoni dei suoi discepoli consapevoli o meno. Nascono così le American Recordings, ai vertici della musica americana, divise in sei dischi, uno più bello dell’altro. Il primo della serie esce nel 1994, dà il titolo alla serie ed è l’81esimo album di Johnny.
Una nuova generazione scopre Cash e ne fa un mito. La critica scrive che le American Recordings sono la summa della musica folk statunitense, insieme con il miglior Bob Dylan e con la chitarra acustica di John Fahey. Cash rimette mano al suo repertorio e trasforma in capolavori senza tempo brani «attuali» come Hurt dei Nine Inch Nails o Personal Jesus dei Depeche Mode. Si porta a casa il Grammy e una miriade di riconoscimenti, tra i quali un album tributo delle stelle più luminose.
Il 15 maggio 2003 muore a 73 anni per complicazioni dovute al diabete. Pare che Dio abbia mandato l’uomo in bianco a ricevere, in Paradiso, l’uomo in nero.