Corriere della Sera, 9 giugno 2024
Berlinguer parlava al futuro
Su Enrico Berlinguer, in questo quarantennale dei giorni tragici di Padova, si scriverà di tutto. Non è un male, a mio parere. Il successo incredibile della mostra allestita dalla Fondazione Gramsci, con la grande partecipazione di giovani, dimostra che il ricordo, che talvolta si tramuta in bisogno emotivo e politico, dell’opera del segretario del Pci è ancora vivo. È ancora attuale.
Non posso che ribadire quanto scrissi nel 1994 introducendo questa raccolta di sue citazioni. Ho sempre pensato la stessa cosa dell’uomo la cui attività politica ha cambiato il destino mio e di milioni di persone. Sinceramente non so se, senza la sua innovazione, il suo coraggio, la sua coerenza avrei, avremmo in tanti, fatto la scelta poi compiuta.
Fu lui, in quel tempo della storia che precedeva il 1989, in quell’equilibrio ancora segnato dalla guerra fredda, a portare al punto più alto possibile l’apertura politica e culturale e l’identità dei comunisti italiani. Si fa una gran fatica, chissà perché, a spiegare che la sottolineatura del carattere nazionale della vicenda del Pci, conferisce a quel partito una unicità che ha consentito di raggiungere, proprio con Berlinguer, più del 30 per cento dei consensi. «Uno su tre vota Pci», si diceva. Ma questo era potuto accadere grazie a Berlinguer che, con coraggiosa solitudine, aveva «strappato» i rapporti del suo partito con Mosca, sostenendo proprio al Cremlino il «valore universale della democrazia», interrompendo il finanziamento dal Pcus, condannando il golpe in Polonia, e, soprattutto, sostenendo, alla metà degli anni Settanta, che fosse preferibile, per l’Italia, stare «sotto l’ombrello della Nato piuttosto che sotto quello del Patto di Varsavia».
Viene da pensare, soprattutto quando si leggono sui social certe ricostruzioni dell’opera di Berlinguer quasi fosse stato un difensore dell’ortodossia, come il Tribunale Digitale Permanente avrebbe oggi accolto la dichiarazione sulla Nato, la proposta del compromesso storico o la decisione, dopo il successo del 1976, di sostenere un governo monocolore guidato da Andreotti, o ancora il giudizio sul movimento del Settantasette. Per ogni frase dell’allora segretario del Pci si sarebbe verificata quella che oggi viene definita, semplicisticamente, una «esplosione della rete». Berlinguer aprì quel partito che non aveva mai superato il 27 per cento e con lui arrivò, in quattro anni, al 34 per cento. Sapeva, e come lui Aldo Moro, che la forza elettorale dei comunisti italiani, la resistenza della Dc che, due anni dopo la batosta sul divorzio, risalì quasi al 39 per cento, rendevano necessaria, pena il precipitare del Paese in una grave crisi istituzionale e finanziaria, una collaborazione tra due forze la cui natura democratica era stata definita dalla comune partecipazione alla Resistenza.
E poi c’era il mondo esterno, quello degli Usa e dell’Urss, che, come era avvenuto per mano di Kissinger in Cile e di Brežnev a Praga, impediva tutto ciò che si muovesse fuori dalla logica dei blocchi. Moro e Berlinguer portarono la loro sfida oltre quelle colonne d’Ercole e ci fu bisogno dell’assassinio del presidente della Dc per arrestare un processo politico che, attraverso un passaggio di legittimazione, avrebbe potuto dare al Paese un sistema fondato sull’alternanza, forse favorendo anche la formazione di quella grande forza della sinistra riformista che è stata il sogno di molti di noi. Per quel Pci votarono, si iscrissero, assunsero responsabilità persone che non erano legate ideologicamente alla dottrina leninista, che non credevano alla dittatura del proletariato, al partito unico, alla nazionalizzazione dei mezzi di produzione. D’altra parte già con Gramsci e con il Togliatti del patto costituzionale quell’originalità era stata definita. Con Berlinguer un partito come il Pci difendeva gli ultimi ed era ancorato ai valori della democrazia. Per questo un italiano su tre lo votò.
Berlinguer si è mosso nel suo tempo ma, in quei confini definiti dalla storia, è stato un coraggioso innovatore. Anche l’ultima fase, quella frettolosamente definita dell’arroccamento, conteneva grandi intuizioni: il governo mondiale, il valore del femminismo, la centralità dell’ambiente, la questione morale, i movimenti per la pace. Stiamo parlando di quarant’anni fa. Tempo in cui Enrico Berlinguer propose, inascoltato e quasi deriso, un convegno che definì di «futurologia» per immaginare nella sua integralità il mondo futuro e in cui disse, partendo da 1984 di Orwell: «Ho usato quel termine per segnalare che oggi non sono entrati in discussione soltanto gli assetti produttivi e le strutture del capitalismo maturo, ma siamo di fronte a una vera e propria crisi del mondo. Viviamo in un’epoca per molti aspetti suprema della storia dell’uomo sia per le possibilità che per i rischi. L’allarme non riguarda solo il rapporto tra lo Stato e l’elettronica ma riguarda anche i fiumi, i laghi, i mari, l’aria che respiriamo, l’atmosfera e la troposfera della terra. Grava infine sull’umanità l’incubo di una crescente insufficienza delle risorse alimentari… La democrazia elettronica limitata ad alcuni aspetti della vita associata dell’uomo può anche essere presa in considerazione. Ma non si può accettare che sostituisca tutte le forme della vita democratica. Anzi credo che bisogna preoccuparsi di essere pronti ad affrontare questo pericolo anche sul terreno legislativo. Ci vogliono limiti precisi all’uso dei computer come alternativa alle assemblee elettive. Tra l’altro non credo che si potrà mai capire cosa pensa davvero la gente se l’unica forma di espressione democratica diventa quella di spingere un bottone». Berlinguer, in quel tempo della sua esperienza politica, fu duramente attaccato. Ricordo la copertina de «L’Espresso» con il titolo Processo a Berlinguer. I gruppi estremisti manifestavano sotto Botteghe Oscure deridendone la moderazione, da destra gli attacchi erano ripetuti e costanti.
Muore a Padova, in quel modo terribile. Ma in un modo che racconta, meglio di mille parole, come si possa intendere la politica in quanto servizio, in quanto impegno ideale.