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 2024  giugno 09 Domenica calendario

Intervista a Antonio Franchini

Antonio Franchini, in un Paese come l’Italia che santifica la figura della madre, lei scrive un romanzo, «Il fuoco che ti porti dentro», il cui incipit è: «Mia madre puzza». Perché?
«Mia madre era un grande personaggio, simile a un personaggio letterario: impetuosa, tracimante, rumorosa. Incoerente, mi ricorda l’incoerenza di certi politici oggi. Una donna piena di difetti, ma a suo modo potente, come la protagonista di un romanzo. Ecco perché io, da scrittore, più che mia madre ho raccontato il suo personaggio. Che ha la forza della finzione, superiore alla realtà».
Dopo una lunga carriera in Mondadori, da nove anni lei è direttore di Giunti. Gian Arturo Ferrari, il decano dell’editoria italiana, l’ha indicata come suo erede. Ci dica allora: come si riconosce un grande romanzo?
«È sempre più difficile. Ve lo spiego con un aneddoto. Mauro Covacich una volta mi disse: “Ma tu ce lo vedi Kafka che va in libreria a presentare La metamorfosi?”. Questo per dire che un tempo lo scrittore aveva un’aura sacrale oggi perduta. In tanti casi si ritiene più interessante il racconto di quello che uno ha scritto, rispetto al libro stesso. È l’epoca della comunicazione, sì, ma se dovessimo nominare uno o due libri che hanno resistito agli ultimi dieci anni trascorsi, sarebbe facile per voi?»
Proviamoci: un titolo?
«Canale Mussolini, di Antonio Pennacchi».
Com’è nato il titolo?
«Antonio diceva: “Quel canale si chiama Mussolini perché l’ha fatto Mussolini, se lo aveva fatto uno del Pd avrebbe avuto un altro nome”. Quando un romanzo è forte, non deve temere i pregiudizi».
Lei è noto per aver trovato alcuni tra i titoli più belli degli ultimi anni, ad esempio «La solitudine dei numeri primi» di Paolo Giordano.
«Quella frase era contenuta nel romanzo. A volte basta leggere con attenzione».
Un altro libro italiano che resiste all’usura del tempo?
«Vite di uomini non illustri di Giuseppe Pontiggia. E il perché fosse un capolavoro, me lo spiegò proprio Ferrari in poche parole: “Sono ritratti di persone comuni che nascono e muoiono senza aver fatto niente di speciale”. È questa essenzialità che ne costituisce la grandezza. Quando la gente ha bisogno di sentirsi raccontare un mucchio di palle perché non riesce a vedere la bellezza delle cose fondamentali, allora nasce la letteratura consolatoria».
Chi vincerà lo Strega?
«Azzardo: Donatella Di Pietrantonio».
Lei è stato definito «il signore dello Strega».
«Sciocchezze. Quella è una vittoria corale. Come editore ne ho vinti undici, poiché “partecipo” dal 1991».
Perché ora non concorre con il suo romanzo?
«Perché l’idea che a una certa età io rivendichi per me quei successi conquistati negli anni con le case editrici mi pare ripugnante».
Cosa si fa per vincere lo Strega?
«C’era quello scrittore che andava in giro mostrando le sue lastre diagnostiche per sottolineare la salute precaria e racimolare voti...».
Liti?
«Ricordo i battibecchi tra Aldo Busi e Rossana Ombres; ma parliamo di intellettuali veri. Busi, per esempio, è stato uno che ha saputo mettere i propri demoni al servizio del lavoro creativo».
Non tutti ricordano che Alessandro Barbero, prima di diventare famoso come divulgatore, ha vinto lo Strega con un romanzo.
«E quel romanzo, Bella vita e guerre altrui di mr. Pyle, gentiluomo, non è stato il solo esercizio letterario di Barbero. Che non è un autore facile, anzi. I suoi libri hanno una complessità che, curiosamente, risulta accessibile, anzi, è proprio la sua complessità che lo rende popolare».
Perché gli autori di gialli e di noir spesso preferiscono non concorrere, anche se sono scrittori raffinati?
«Purtroppo in Italia ancora oggi, anche dopo esempi rilevanti come Andrea Camilleri, uno che scrive gialli si sente in un ghetto. Cosa assurda, poiché l’idea di romanzo è cambiata, e il noir si può benissimo contaminare con altri temi. Pensiamo solo a Il nome della rosa».
Ferrari non pensa che Eco sia stato un grande scrittore. Lei?
«Che cosa è Il nome della rosa se non un riuscito compendio tra il giallo, la storia e la semiotica? Eco ebbe il coraggio di sdoganare tutti i generi ritenuti inutili, dal fumetto al giallo, ma nei suoi appunti annotò: “Non mi perdonano di aver scritto un romanzo come fosse un articolo de l’Espresso”. Erano gli Anni Ottanta, la letteratura italiana era molto conservativa, la trama era sospettata di collusione con la narrativa di consumo».
Altre vittime di un pensiero critico intransigente?
«Pur essendo i suoi libri molto importanti nel bilancio della Mondadori, Luciano De Crescenzo non trovò mai posto se non nella Varia».
E oggi?
«Oggi io sfido a trovare nelle classifiche più di quattro libri, tra italiani e stranieri, che possano dirsi puramente letterari».
La letteratura vera è scomparsa dalle classifiche?
«Mi pare evidente o, comunque, quello che si vende è altro. E un editore deve pensare anche alle vendite. Ma è diventato difficile anche trovare nuovi talenti, perché oggi nelle scuole di scrittura gli aspiranti autori vengono presentati in gruppo a editori e agenti. Un “pitch” collettivo, in cui loro si devono raccontare in poche parole. Un tempo venivano da me, che ho un certo metro di giudizio. Ma se oggi devi farti notare sia da noi, sia dagli agenti letterari, sia dagli esperti di comunicazione, è comprensibile che la natura stessa del “talento” si stia trasformando in qualcosa di più sfaccettato».
Siamo più o meno conformisti di tanti anni fa?
«Io sinceramente credo che oggi un capolavoro come Lolita difficilmente sarebbe pubblicato. Lo stesso vale per A sangue freddo di Truman Capote. Ma è lo spirito del tempo: la mia generazione ha capito tardi che autori come Rea, Cassola, Bassani, Soldati erano grandi scrittori, perché fino agli Anni Ottanta su di loro era caduta la scure dell’avanguardia. Per il Gruppo ’63 Bassani era “la Liala della letteratura”».
Ci sono in ogni stagione talenti che, a causa dello «spirito del tempo», rischiano di passare sottotraccia?
«Sì, anche “letteratura” è un termine ampio e ci sono ottimi scrittori che scelgono di scrivere per il cinema o per la televisione di qualità».
Lei preferisce Pavese o Fenoglio?
«Fenoglio, ma con fatica; perché ho amato molto anche Pavese».
Il predominio Mondadori-Rizzoli allo Strega è ormai tramontato?
«Parlano i dati: sempre più case editrici medio-grandi si piazzano ai primi posti. Ma è naturale: il mercato editoriale è cambiato. Oggi i temi sono molti di più; pensate a quelli legati alle donne. Vedo vivacità negli editori più piccoli».
Ferrari ha indicato lei; ci dica ora lei chi sarà il suo erede.
«Non potendo dire Giulia Ichino che lavora con me, dico Carlo Carabba».
Ci sarà mai un «ultimo libro» nella storia umana?
«Nella serie tv Ai confini della realtà c’è un misantropo felice solo tra i libri. Quando una catastrofe lo rende l’ultimo sopravvissuto, entra in una biblioteca e gioisce. Ma gli si rompono gli occhiali e non può leggere. Morale: i libri esisteranno fino a quando saremo in grado di leggere e scrivere».