la Repubblica, 9 giugno 2024
Noa Argamani è tornata a casa
Le immagini del suo rapimento, quel grido disperato («Non uccidetemi») mentre veniva portata via in motocicletta, le braccia tese verso il fidanzato – rapito anche lui e ancora a Gaza – ne avevano fatto immediatamente un simbolo: il suo volto e la sua storia, gli appelli della mamma, malata terminale di cancro al cervello, erano rimbalzati in tutto il mondo.Noa Argamani è tornata a casa. A Netanyahu ha detto su due piedi: «È da tanto che non parlo ebraico», e più tardi ha raccontato di essere stata prigioniera in casa di una famiglia benestante e non nei tunnel. Per il governo israeliano è una notizia che vale oro: 26 anni, studentessa di Beer’sheva, città del Sud a poco più di mezz’ora da Re’im, il luogo dove il 7 ottobre si teneva il Nova festival, la sera prima era uscita per ballare con il fidanzato. Il video del suo rapimento era stato uno dei primi ad emergere quel giorno: dallo sguardo terrorizzato di quella ragazza milioni di persone nel mondo capirono che la crisi che stava aprendo a Gaza non era nulla di simile a ciò che era avvenuto in passato.Nel giro di poche ore Noa, come Shani Louk, divenne il simbolo della violenza perpetrata sulle donne israeliane quel giorno. Entrambe giovani, entrambe bellissime, entrambe prese mentre erano ad una festa: l’una, Shani, portata via incosciente, forse già morta, caricata come un trofeo sul retro di un pick up dai miliziani e ritrovata cadavere a Gaza mesi dopo. L’altra, Noa, tenuta a forza due uomini sul retro di una motocicletta prima di scomparire per mesi: e riapparire poi pallida, spaventata, ferita, in un video di propaganda, costretta a raccontare la morte dei due ostaggi con cui aveva condiviso la prima parte della prigionia.A rendere tutto ancora più difficile la situazione della mamma di Noa, la signora Liora, cittadina cinese, che ha un cancro al cervello in fase terminale: a novembre aveva lanciato un appello agli Stati Uniti e alla Cina perché la aiutassero a riabbracciare l’unica figlia prima di morire. A gennaio aveva usato tutte le sue forze per parlare ad una delle tante manifestazioni per gli ostaggi a Tel Aviv, facendo piangere l’intera piazza. «Sto morendo, ridatemi mia figlia».Salvare Noa per Israele significava riscattare almeno in parte Shani e le altre giovani vittime di Hamas: quelle uccise il 7 ottobre e quelle – sono una dozzina – ancora prigioniere a Gaza, su cui incombe l’incubo di una violenza sessuale prolungata: l’obiettivo ora è stato raggiunto. Per la ragazza con gli occhi a mandorla e per la sua famiglia ora la parte peggiore dell’incubo è finita: le altre aspettano ancora.