la Repubblica, 9 giugno 2024
L’Arabia fa i conti con il calo del petrolio Opec in crisi, delude l’operazione Aramco
ROMA – Se davanti a due indizi si può ancora parlare di coincidenze, tre indizi rivelano che qualcosa sta affettivamente accadendo. Per esempio, che il mondo dell’energia sta accelerando verso la transizione green e i produttori di fossili non possono che gestire al meglio il loro declino. Lo ha capito molto bene negli ultimi giorni l’Arabia Saudita, uno dei leader mondiali per la produzione di petrolio (con Stati Uniti e Russia), che sembra ormai avviata a perdere la sua battaglia per mantenere il prezzo del greggio sopra gli 80 dollari.
Ed è il primo indizio: la domanda di petrolio è ormai al suo massimo, destinata a fare marcia indietro a breve. L’Agenzia internazionale per l’energia, con il suo presidente Fathi Birol, lo va ripetendo dall’anno scorso: «Il passaggio a un’economia basata sull’energia pulita sta accelerando, con un picco della domanda globale di petrolio in vista prima della fine di questo decennio, con l’avanzamento dei veicoli elettrici, dell’efficienza energetica e di altre tecnologie».
Risultato? Complice una ripresa economica che, in particolare in Cina, stenta ai tornare ai livelli pre-Covid, il prezzo del greggio è tornato ai livelli di un anno fa: 75,38 dollari sul mercato americano la chiusura di venerdì scorso, lontano dai massimi dell’anno (87 dollari il primo aprile scorso). Di fatto, il fallimento evidente del tentativo dell’Arabia di mantenere i prezzi stabilmente sopra i 90 dollari. Difficile che la domanda riprenda visti i dati dell’ultimo rapporto sempre a firma dell’Agenzia internazionale: nel 2024 gli investimenti nel mondo nelle energie green doppieranno quelli destinati ai combustibili fossili «grazie al miglioramento delle catene di approvvigionamento e alla riduzione dei costi delle tecnologie».
E si arriva al secondo indizio. Per sostenere i prezzi, settimana scorsa i sauditi si sono affrettati a convincere i membri dell’Opec+ a prolungare i tagli alla produzione alla fine del 2025, mantenendo la riduzione di due milioni di barili al giorno. Ma nemmeno questo è bastato per invertire l’andamento delle quotazioni, come invece accaduto in passato all’annuncio di una minore offerta sul mercato. Tutta colpa di una “quota fantasma”, altri 2,2 milioni di barili che potrebbero essere tagliati ma non è stato detto né da chi e né con quale meccanismo. Un difetto di comunicazione, come hanno subito rimproverato a Opec+ gli analisti di settore, che ha reso gli investitori molto prudenti, per il sospetto che lo storico cartello ormai faccia fatica a convincere i suoi membri a tagliare la produzione e quindi a ridurre le entrate (l’anno scorso si è defilata l’Angola, uno dei maggiori produttori africani).
Il che ci porta al terzo indizio. La dinastia saudita ha bisogno di fondi per sostenere i progetti ambiziosi del suo leader, il principe Mohammad bin Salman, tra città futuribili nel deserto, ma anche investimenti nelle energie rinnovabili, uniti sotto la dicitura Vision 2030. Per compensare il calo del greggio, è appena stato annunciato il collocamento di una quota di Aramco, la società di Stato del petrolio, quotata in Borsa del 2019 e che due anni fa aveva superato anche Apple per capitalizzazione.
Agli investitori è stata proposta una quota pari allo 0,64%, raccogliendo una domanda superiore addirittura della quotazione di cinque anni fa. Ma l’altro giorno è arrivata la doccia fredda per Riad: investitori in fila, ma disponibili a sottoscrivere le azioni solo nella parte bassa della forchetta di prezzo. Fissato l’intervallo tra 26,7 e 29 ryal, l’offerta si è chiusa a 27 ryal (circa 7,3 dollari) per un incasso complessivo pari a 11,2 miliardi di dollari. In sostanza, uno sconto del 6% sull’ultima chiusura di Borsa. Non solo: per essere certe del successo, le autorità saudite hanno consentito l’ingresso di un numero senza precedenti di investitori occidentali (più di 120), cosamai accaduta in precedenza.
Fin qui le considerazioni industriali e finanziarie. Poi ci sono quelle geopolitiche. Il conflitto in Ucraina – così come è avvenuto per il gas – ha cambiato il mercato del petrolio. Ma l’Arabia Saudita ne ha approfittato solo in parte. Le potenze occidentali (guidate da Usa e Ue, ma anche Giappone e Australia) hanno imposto l’embargo alle petroliere russe.
Le quote di greggio venute meno sono state coperte, soprattutto in Europa, proprio dagli Usa: sono diventati i primi esportatori nella Ue, seguiti da Norvegia (che ha riattivato una serie di pozzi nel mare del Nord). Solo al terzo posto viene l’Arabia.