la Repubblica, 9 giugno 2024
Il pensatore che elogiava la calvizie
Un volume curato da Francesco Monticini riunisce le opere di Sinesio di Cirene, intellettuale eccentrico e non solo filosofo
Si racconta che un giorno Michel Foucault si sia sentito porre da un bambino questa candida e impertinente domanda: «ma tu perché non hai i capelli?». Risposta: «perché ho tanti riccioli nel cervello».
Chissà se Foucault, o l’autore dell’aneddoto, era consapevole di orecchiare l’operetta più nota di un autore antico normalmente poco noto. L’operetta è l’ Elogio della calvizie, l’autore è Sinesio di Cirene, vissuto a cavallo fra IV e V secolo d.C. In questo semiserio opuscolo si legge fra l’altro che «il calvo ha il cranio spoglio, ma la mente villosa». Villosa – precisa Sinesio – come il petto di Achille secondo Omero. Immagine decisamente più machista rispetto a quella di Foucault. Ma la metafora è la stessa, e la consonanza colpisce.
Se l’ Elogio della calvizie consola da secoli i diversamente criniti di ogni età, e non a caso è la sola opera di Sinesio che abbia conosciuto plurime traduzioni italiane, è probabile che il nome di questo autore dica poco o pochissimo al di fuori delle cerchie specialistiche. L’occasione per conoscerlo meglio ci è ora offerta da un elegante e poderoso volume curato da Francesco Monticini (Sinesio di Cirene. Tutte le opere,Bompiani, collana “Il pensiero occidentale”), che con ammirevole coraggio – coraggio villoso, verrebbe da dire – si è sobbarcato la traduzione di circa 300 pagine, fitte fitte, di greco spesso ostico. La traduzione, diceva Luciano Bianciardi, è «una fatica da sterratore». E qui la terra, possiamo assicurarlo, era piena di sassi, e irta di spericolati saliscendi. Complimenti a chi l’ha affrontata con tanta dedizione, e per di più tutto da solo: caso raro per una collana che si è specializzata nell’offrire la traduzione integrale di opere antiche spesso gigantesche (tutti i Presocratici, tutto Platone, tutto Seneca, tutto Plutarco), ma che di norma si affida a équipe plurimani, con esiti di qualità inevitabilmente variabile.
Ma chi era Sinesio di Cirene? Era un intellettuale di variegata formazione cresciuto in una delle zone culturalmente più fertili dell’allora Occidente, ben più vasto del nostro: l’Africa mediterranea, e in particolare la Libia. Nella sua breve vita – quarant’anni o poco più, fra il 370 e il 413 circa – Sinesio frequentò le capitali culturali dell’impero, dalla limitrofa Alessandria fino ad Atene e a Costantinopoli. Ma restò sempre legato alla Cirenaica delle sue origini, e in quella sede svolse ruoli civici di un certo peso, si impegnò a contrastare o a governare i flussi migratori che a scuola si continuano a chiamare “invasioni barbariche”, si misurò con i grandi politici dell’epoca o con i piccoli amministratori e generali locali. Ma soprattutto studiò e scrisse con fluviale abbondanza, componendo trattati, omelie, inni, lettere. Il suo epistolario, che include oltre 150 pezzi di variabile tenore e lunghezza, è un eccezionale spaccato di vita, di pensiero e di storia, dove si mescolano fatterelli privati e fatti epocali, questioni teologiche e futilità letterarie, beghe di paese e scenari globali.
Sinesio rivendicò sempre per sé il titolo impegnativo di “filosofo”, ma questa è un’etichetta sbiaditain un’epoca per la quale reggono a malapena le distinzioni fra retorica, filosofia, paideia letteraria, scienza e fede religiosa. Il grecista Antonio Garzya, uno fra i maggiori studiosi di Sinesio, riteneva appropriata l’etichetta moderna di “saggista”: titolo di comodo che utilizziamo, in mancanza di meglio, quando “scrittore” ci sembra troppo frivolo e “specialista” ci sembra troppo serio. Sinesio, a dire il vero, fu queste e molte cose. Forse troppe. Al punto da trovarsi relegato al margine di quasi tutti i canoni: quello letterario, quello filosofico, quello religioso.
Sul finire della sua vita egli fu anche vescovo, a quanto pare senzavolerlo e senza gradirlo: terrorizzato all’idea di abbandonare gli studi e diventare un uomo pubblico, «sorvegliato da migliaia di occhi», confessò apertamente di considerare molte credenze cristiane come semplici favole buone per il popolo, ma inaccettabili per un filosofo. Niente male come premessa a un così alto ufficio ecclesiastico.
Il cristianesimo del vescovo Sinesio, allevato alla scuola neoplatonica di Ipazia, non poteva essere né aproblematico né puro, perché nulla di puro si dà in questa età di sistematiche mescidanze culturali e religiose che rendono così istruttivo lo studio del tardo-antico. Del resto, da tempo abbiamo imparato a leggere la storia della stessa Ipazia, compreso il finale e sanguinoso martirio a opera di cristiani oltranzisti, non come l’apice della drastica contrapposizione fra paganesimo e cristianesimo, ma come un momento – travagliato e tragico – di un dialogo secolare, durante il quale la contiguità era quotidiana e la fusione inevitabile. Un dialogo abilmente orchestrato e negoziato da autorità politiche di tutte le parti, che certo non furono due soltanto, ma molte e assortite, specie in seno al frastagliato cristianesimo dell’epoca.
Proprio a Ipazia, chiamata semplicemente “la filosofa”, Sinesio indirizza alcune delle sue lettere più interessanti. Egli si rivolge a lei definendola «madre e maestra e sorella e perciò mia completa benefattrice, persona e nome che su tutti onoro». Quando scrive queste righe, Sinesio è già vescovo cristiano. Eppure può rivolgersi con tanto trasporto a una presunta nemica del cristianesimo. Si vede bene, in ogni pagina della sua opera, che certe posteriori antinomie sono semplicistiche per la sua vita e per la sua epoca. E si impara che spesso l’integrazione fra le culture è un processo inevitabile e quasi naturale. Se qualcuno, beninteso, non si impegna per impedirlo.
Scrisse lettere a Ipazia, che definiva “madre, maestra e benefattrice”