la Repubblica, 9 giugno 2024
Una magnifica ossessione per le parole.“Autobiogrammatica” di Tommaso Giartosio
E se le parole dettassero le nostre azioni? E se rivelassero l’essenza delle cose? In fondo la parola “forchetta” un poco punge, fa forellini, mentre la parola “coltello”, apparentemente liquida, potrebbe svelare la morbidezza nascosta dell’oggetto. Ancora: Alvar Aalto aveva certo la vocazione del grande architetto, «ma le sue iniziali non gli avranno fornito una spinta in più a primeggiare»? Questa la convinzione di Tommaso Giartosio, intorno a cui ha costruito la sua Autobiogrammatica (minimum fax), ora finalista allo Strega. L’incipit è straordinariamente felice: «La pasta al forno con i peperoni era croccante quasi quanto la parola croccante, era untuosa come untuosa…». Di qui si snoda un romanzo di formazione, borghesissimo e dissonante, in cui ritroviamo echi di Perec, Manganelli, della citata Natalia Ginzburg del Lessico e anche della parodia dei gerghi culturali dell’arbasiniano Fratelli d’Italia. L’autore ha scritto forse l’ultima e più perfetta autofiction, capace di fondere biologia e grammatica, parole e cose.
Partendo da una scena conviviale del presente, in Sicilia, in cui l’io narrante ripropone un corrivo gioco di parole su Salvo Lima, che indigna tutti i commensali, si ripercorre l’infanzia e adolescenza del protagonista, scandite puntualmente dal un lessico famigliare alto, fondamento dell’unità della famiglia. La pagina di Giartosio sfiora un virtuosismo assoluto nell’interrogarsi sui nonsense e nell’accostare idiomi opposti. Il narratore e il lessicografo procedono di pari passo: non vi è notazione linguistica che non si sciolga in una affabulazione. Eppure viene in mente una obiezione di fondo a un libro così originale e di finissima fattura. La letteratura autentica nasce sempre da qualche demone personale, però coincide anche con una liberazione (benché parziale) da quel demone. Qui invece nessuna liberazione! L’ossessione per la “cataratta di parole” che è la nostra esistenza sembra riempire – claustrofobicamente – tutto lo spazio possibile; avvitandosi in una parte finale sproporzionatamente ampia intorno alla figura di Ezra Pound, autore importante ma anche sopravvalutato.
La vita non è parola né si esaurisce nelle parole, benché queste provano a darle un ordine, una forma. E infatti attraverso la menzogna e il sortilegio della parola letteraria questo libro ci offre alcuni ritratti memorabili, primo fra tutti quello del padre, ufficiale di marina, patriota, antifascista e capo mancato del Sisde. Ma anche l’immagine della madre, che nominava il caos in vari modi: pollaio, macello, magazzeno, un bailamme… Ogni parola, annota l’autore, trasmette un’assenza, parla proprio di ciò che in quel momento non c’è: così il racconto biogrammatico di sé rimanda a una assenza, a qualcosa di non detto, e forse di non dicibile, di non interamente formalizzabile: la scrittura di Giartosio evoca continuamente il residuo impronunciabile dell’esperienza personale, il “mazzo di papaveri” in cui consiste.
Ciò che lo salva da un mero gioco del significante, è alla fine l’intelligenza. Si potrebbe parlare di uno stile dell’intelligenza: non vi è pagina che non sia caratterizzata da penetrazione psicologica, sottigliezza di osservazione, insolito acume filosofico. Potrebbe accadere che alcune delle frasi cambino la vita del lettore (a patto che questi glielo consenta).