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 2024  giugno 09 Domenica calendario

I nuovi padroni del Niger

La tempesta è arrivata all’improvviso. Un muro scuro e compatto, alto centinaia di metri, si è materializzato all’orizzonte e ha cominciato a correre verso la metropoli. Una nuvola, gonfia di sabbia del deserto, ha travolto Niamey: ovunque l’aria è diventata color rosso cupo, imprigionando ogni cosa in un pulviscolo denso. La visibilità si è ridotta a pochi centimetri; bisognava muoversi in un universo marziano senza possibilità di distinguere auto, persone o palazzi. Con la stessa velocità il Niger ha vissuto in una sola settimana una metamorfosi destinata a cambiare le sorti del Sahel e forse dell’intera Africa. Come se tutto avesse cominciato a correre, in sette giorni è stato cancellato il passato e la nazione si è gettata di colpo nelle braccia di nuovi alleati, pronti a impadronirsi del suo futuro.
Domenica 12 maggio, non appena la nube si è dissolta, sulle strade coperte di sabbia della capitale si è fatto largo un corteo chiassoso di motociclisti che inneggiavano a Vladimir Putin. Un centinaio di persone, cavalcando vecchie enduro cinesi dalle marmitte arrugginite, urlava: «Viva la Russia, morte ai francesi», e raccoglieva un seguito festoso formato dai bambini poverissimi che vivono nelle baracche ai lati delle arterie principali. Il coro di urla e clacson si faceva più intenso ogni volta che le moto affrontavano una rotatoria e salutavano le bandiere russe. Sono state issate in tutti irond point di Niamey: un tripudio di vessilli con le strisce orizzontali bianco- blu-rosse messi in bella mostra nei viali della città. In alcuni casi, anche i muretti delle aiuole sono stati dipinti con gli stessi colori. Non gli unici. Oltre che da quella nigerina, la bandiera russa viene sempre accompagnata da quelle del Mali e del Burkina Faso: i simboli della triplice intesa Aes tra i golpisti del Sahel, che pochi giorni dopo hanno formalizzato il patto per fondersi in un unico Stato federale, convinte di esibire i muscoli al mondo.
I generali che a fine luglio hanno preso il potere a Niamey con un putsch incruento, non hanno solo spento l’unico governo democratico faticosamente germogliato a questa latitudine, chiudendo agli arresti domiciliari il presidente eletto, ma vogliono cambiare la storia: si sentono protagonisti di una rivoluzione che in meno di un anno ha stravolto la posizione internazionale del Niger e alimenta disegni di rivalsa anti-occidentale. La stessa retorica anti-colonialista impugnata dai militari che governano i confinanti Mali e Burkina Faso, che hanno deposto con le armi i loro predecessori civili o militari accusandoli di debolezza nei confronti dei terroristi jihadisti e ora cercano di nascondere gli attacchi sanguinosi delle milizie islamiche. In compenso spuntano ovunque le gigantografie dei tre presidenti: il colonnello Assimi Goïta del Mali, il capitato Ibrahim Traoré del Burkina Faso e il generale nigerino Abdourahamane Tchiani.
Per prima cosa, a Niamey l’auto-proclamato Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria ha messo mano alla toponomastica. Il boulevard Francois Mitterand è diventato avenue de la République, e hanno ribattezzato place de la Résistence quella subito fuori dall’aeroporto, da cui partela strada per il gigantesco campo fortificato pullulante di hangar che fino a dicembre ospitava il contingente francese, quasi tremila legionari con caccia ed elicotteri espulsi nel giro di un trimestre. In quel perimetro di filo spinato e telecamere, sopravvive la “Base 101” dell’Us Air Force, sotto sfratto e costretta a condividere caserme e piste con l’avanguardia dell’esercito russo. Impossibile avvicinarsi: un checkpoint dei parà nigerini blocca l’accesso a chiunque e controlla persino i soldati italiani e tedeschi, ultimo contributo europeo alla lotta contro la guerriglia fondamentalista tollerato dai golpisti. L’accampamento della missione tricolore è a meno di due km: una struttura appena completata, che ospita trecento istruttori impegnati a formare le reclute locali e portare avanti programmi di cooperazione.
Difficile capire quanti siano gli inviati di Mosca. Finora a Niamey sono atterrati tre cargo Ilyushin 76, provenienti dalla Siria. Dal primo sono scesi una settantina di uomini in tuta mimetica, che con il volto coperto si sono sperticati in lodi alla fratellanza tra Russia e Niger davanti alle telecamere della tv statale Tele Sahel. Il secondo è stato tenuto top secret: forse ha depositato parte dei missili terra-aria che renderanno Niamey immune alle squadriglie dell’Ecowas, l’organizzazione dei Paesi dell’Africa Occidentale che la scorsa estate ha manifestato intenti bellicosi contro i golpisti. La contraerea fornita da Putin può però anche rendere esecutivo il divieto ai voli dei droni americani decretato dalla giunta. Il terzo aereo è stato nuovamente mostrato dalla tv locale: la stiva era zeppa di casse di armi e di sacchi di cereali. «Un dono alla popolazione nigerina» – ha magnificato il portavoce del governo – che tutti sospettano sia frutto del saccheggio dei granai ucraini.
La propaganda è la priorità della guerra lampo lanciata dal Cremlino per occupare il Niger. Il corteo dei motociclisti è stato l’ouverture di una sinfonia di iniziative spuntate dal nulla nell’arco di una settimana. Il preludio è stata una surreale proiezione della parata della vittoria sul Terzo Reich, trasmessa in diretta dalla Piazza Rossa per una platea minuscola: a Mosca c’erano tracce di neve, qui la temperatura era di 46 gradi e non si capiva se i simpatizzanti fossero realmente tali o cercassero solo ristoro dall’afa nella sala climatizzata. Sarebbe però uno sbaglio sottovalutarli. Pochi giorni dopo, il 14 maggio, il pubblico è quadruplicato per l’esordio dell’associazione di amicizia russo-nigerina, riunita ai piedi dei ritratti di Putin e Tchiani. Il lancio di “Ensemble Main dans la Main Niger-Russie” (“Insieme mano nella mano”) è cominciato con la benedizione di un imam che ha segnato in oro «il simbolo della spiritualità condivisa dalle due nazioni». E il presidente dell’Ong Dicko Mouhamadou ha spiegato: «In un’esplosione di patriottismo senza precedenti, porremo le basi reali per lo sviluppo del Niger attraverso l’affermazione della sua effettiva indipendenza e della sua piena sovranità». Nelle stesse ore il generale Abdou Sidikou Issa è stato nominato ambasciatore a Mosca: finora non ce n’era mai stato uno. E al ristorante dell’hotel Radisson Blu, il barometro degli orientamenti politici e imprenditoriali nigerini, quella sera c’è stato un altro esordio: una tavolata di russi che non hanno risparmiato sulle libagioni.
Riuscire a contattare i putiniani locali non è stato semplice, perché diffidano degli europei. Ahmed Bello ha chiesto sospettoso quali fossero i rapporti tra Italia e Russia, ma è bastato evocare l’amicizia tra Berlusconi e Putin, condita da qualche frase turistica in russo, per convincerlo a farsi intervistare. «All’inizio ero praticamente il solo a parlare pubblicamente della necessità di collaborare con la Russia. Questo mi ha creato problemi con il vecchio regime, mi hanno anche arrestato. Ma ora il nuovo governo è favorevole, finalmente posso dire quello che voglio». Bello è il presidente di “Développons le Niger” e coordinatore della comunicazione di “Niger per Parade”, la cui sede principale è in Senegal: due delle neonate associazioni pro Mosca. Adesso vive il suo momento di gloria: «Sono stato tra i primi a sostenere la Russia. L’ho fatto per due ragioni. Anzitutto il discorso di Putin: mi ha convinto subito, perché ti sembra che a parlare sia un africano. Ha compreso i nostri problemi e come può aiutarci a risolverli da soli. Ha elencato i danni della dominazione coloniale, di come ha schiacciato la nostra cultura e la vita della gente del Sahel. La seconda ragione è l’efficacia dei suoi militari nella lotta ai terroristi. Abbiamo visto la determinazione della Russia in Siria, in Centrafrica, in Mali, in Burkina Faso e ora in Niger. Questi Paesi non hanno mai avuto un partner così valido, disposto a mettere tutte i suoi mezzi senza volere una contropartita per lottare contro i jihadisti». Il sostegno a oltranza al regime di Damasco è un biglietto da visita che si dimostra vincente. Quello che conta di più però è l’approccio terzomondista di Mosca, eredità dell’era sovietica. «Io non avevo mai avuto rapporti con i russi continua Ahmed Bello –, ma quando li ho incontrati ho compreso che avevano una grande umanità e ci mostravano rispetto. Sono persone di parola: mantengono gli impegni, ci trattano con dignità. L’Occidente ha commesso un errore fatale: pensare di mettersi d’accordo con i leader politici come l’ex presidente Bazoum e grazie a loro manipolare il popolo. In tutto il Sahel i militari si sono resi conto che la gente non era d’accordo e hanno cacciato europei e statunitensi».”L’astio contro Parigi è la linfa che fa crescere l’appoggio ai russi: un sentimento molto più profondo di quanto si percepisca in Europa. Mikael Zodi è una piccola celebrità. Guida il collettivo “Tournons la page” ed è stato il primo a radunare una protesta di piazza contro la Francia già nel 2021: «Ci siamo resi conto che in dieci anni di attività le truppe francesi non hanno ottenuto risultati contro i terroristi: hanno schierato in Niger cinquemila legionari senza riuscire a fermarli. Il morale del nostro esercito stava crollando e abbiamo temuto di diventare un altro Afghanistan». Cosa c’entra l’Afghanistan? «Non ci piace che gli stranieri vengano a fare la loro guerra qui, indebolendo le nostre istituzioni come è avvenuto a Kabul. Vogliamo avere un esercito forte, repubblicano e pronto a difendere l’integrità del territorio e il benessere dei nostri cittadini».In Occidente non ce ne siamo resi conto, ma le immagini delle forze afghane che si dissolvevano in poche ore e della Nato che pensava solo a fuggire da Kabul hanno lasciato un solco profondo nelle nazioni che combattono contro rivolte islamiste. «Il problema non era la collaborazione con la Francia ma il modo in cui veniva gestita: non abbiamo bisogno che le truppe vengano sul nostro suolo per fare la guerra al posto nostro; ci servono invece l’addestramento, la logistica e le informazioni sui nemici. I francesi non solo non erano disposti a darcele, ma hanno comunque insistito per rimanere in Niger: questo ci ha fatto comprendere che non volevano aiutarci, ma seguivano solo interessi economici».Questa è la critica che avete sempre fatto ai francesi, ma perché mandate via pure gli statunitensi? «Sono la stessa cosa – replica Zodi – : qui c’era l’intera Nato; statunitensi, francesi, italiani, tedeschi, belgi, spagnoli. Una cooperazione illegale perché non è mai stata votata dal nostro Parlamento: è come se dietro la guida di Parigi gli altri Paesi si fossero alleati per venire a installarsi da noi, occupando lo spazio gratuitamente. Il Niger non ha avuto benefici economici dalle basi occidentali mentre sappiamo che a Djibouti o in Ciad pagano per i permessi». E perché adesso accogliete i russi? «C’è una grande differenza, non sono truppe che combattono ma istruttori. Il governo ha informato la popolazione del loro arrivo, senza accordi tenuti nascosti: hanno portato apparecchiature e stanno insegnando ai nostri soldati come utilizzarle. Insomma, pensiamo che questa collaborazione sia una scommessa “gagnant-gagnant” da cui trarre solo vantaggi: noi diciamo cosa ci necessita e loro fanno delle proposte. Le autorità attuali sanno che non avremmo mai accettato di scambiare una bandiera straniera con un’altra e se ci accorgeremo che i russi costruiscono una loro base, scenderemo in piazza per protestare».Il copione è simile a quello che negli scorsi anni la Wagner ha seguito per prendere piede nella Repubblica Centrafricana e in Mali. Assieme ai combattenti e ai consiglieri militari, vengono create associazioni pseudo-culturali e soprattutto pompata una campagna social diffusa sui cellulari. Se ne occupa un gruppo specializzato, “African Initiative”, che recluta i personaggi più influenti. Una blogger nigerina molto seguita, Samira Sabou, che pubblicava post critici verso la giunta, è stata arrestata per tre settimane. Dopo la scarcerazione, ha accettato di collaborare con “African Initiative”.Ora gli spin doctor filorussi si stanno focalizzando sul diffondere un messaggio di facile presa, ricalcato sulle teorie complottiste che tengono banco in tutto il pianeta: sono i servizi segreti francesi e statunitensi a finanziare i movimenti jihadisti, perché così terrorizzano la popolazione e giustificano il loro intervento. Persino i talebani fanno qualcosa del genere, accusando la Cia di avere impiantato l’Isis in Afghanistan. Qui l’operazione è più sofisticata e, per quanto paradossale, sta diffondendosi in fretta tra l’opinione pubblica. «Il terrorismo non esiste concretamente in Sahel – dichiara il filorusso Ahmed Bello –, sono stati francesi e statunintensi a far nascere questa piaga che ha causato migliaia di morti. L’hanno creata per indebolire gli africani o obbligarli a emigrare da alcune zone, in modo da prendersi le risorse naturali». Gli fa eco Bukar Moussa, impiegato al comune di Niamey: «I terroristi usano armi europee: dove se le sono procurate? Gliele danno i francesi! Non potrebbero mai comprarle: sono uomini che hanno fame, che mangiano forse una volta al giorno e se si arruolano in quelle bande è perché qualcuno gli fa delle promesse. Vedrete che adesso gli attentati aumenteranno nel Golfo di Guinea, perché è lì che gli europei stanno trasferendo le loro basi…».I liberatori arrivano dall’EstIn questo contesto, invece, Mosca accampa credenziali di risolutore, con un’immagine di forza invincibile. «Il principale bisogno del Sahel è la sicurezza – sottolinea Ahmed Bello – e i russi hanno investito in questo, possiamo già dire che hanno realizzato al 30 per cento questa missione. E sono certo che proseguirà così. Stiamo vedendo la loro determinazione, l’insicurezza si sta riducendo. Il Mali è stato liberato dai terroristi grazie a loro; in Burkina li stanno sconfiggendo grazie agli aiuti militari russi; in Niger disponiamo di armi che in Africa è raro avere come il sistema di difesa anti-aereo. Tutto questo mostra come la cooperazione con i russi risponda perfettamente sia alle aspirazioni sia ai bisogni del nostro Stato e della nostra popolazione».I successi vantati contro i jihadisti non rispondono a verità. In questi giorni in Mali sono addirittura riusciti ad abbattere uno dei jet forniti da Mosca e il 20 maggio c’è stata una strage a cento chilometri da Niamey, con la distruzione di una guarnigione: 17 soldati nigerini sono stati uccisi, venti feriti e sei catturati. Ma se ne parla poco e le notizie spesso vengono distorte, chiamando in causa lalonga manusdei francesi o del Benin. Questa battaglia per l’informazione ha bisogno di tenere lontani i media indipendenti. Ed è così che il Niger, rimasto aperto ai giornalisti stranieri anche dopo il colpo di Stato, all’improvviso ha cominciato a bloccare i reporter. A una troupe tedesca è stata revocata l’autorizzazione subito dopo l’arrivo all’aeroporto, intimandole di restare in albergo. Attualmente i permessi stampa sono pressoché bloccati, salvo che per gli attivissimi canali tv russi.L’operazione sta funzionando. Camminando per le strade di Niamey si percepisce un clima di ostilità verso gli occidentali: non è razzismo per il colore della pelle, ma un odio crescente nei confronti di francesi e statunitensi, gonfiato dai proclami dei media governativi: «Per molti sono tutti francesi – spiega uno studente universitario che vuole rimanere anonimo -. Qui al mercato se mostri una bandiera russa e la giri, credono sia francese e la bruciano. I colori sono gli stessi e non si rendono conto della differenza…». C’è però una sensazione collettiva, condivisa anche da questo giovane disilluso verso le nuove alleanze: «Sta per arrivare un cambiamento radicale. Non posso avere la certezza che sarà in peggio, ma sicuramente è qualcosa di totalmente nuovo per il Niger».Su tutto aleggia il rancore per lo sfruttamento coloniale: «Non è possibile che il mio Paese sia ricco nel sottosuolo e in superficie siamo tutti poveri», insiste l’impiegato municipale Bukar Moussa: «Da quando sono nato non ho visto nulla che la Francia abbia fatto per noi, niente in 59 anni. Ci hanno rubato anche l’uranio e non hanno costruito neppure una casa». È vero: il Niger non manca di risorse ed è uno dei principali produttori di uranio. Un terzo delle centrali nucleari francesi è alimentato dall’estrazione locale e un’altra concessione è in mano a una società canadese. Ci sono pure pozzi di petrolio e miniere d’oro. Eppure la povertà è impressionante. Le statistiche lo relegano agli ultimi posti del pianeta. Quello che si vede girando per Niamey è ancora più sconvolgente: persone che dormono sulle stuoie gettate sulla sabbia, torme di bambini che mendicano anche in piena notte. Una massa senza speranza, che l’avanzata del deserto causata dal riscaldamento globale spinge verso la città: il clima sempre più torrido cancella piantagioni e allevamenti attivi da secoli, ma devastati oggi da una sete che nemmeno il grande fiume Niger riesce ad alleviare. Contadini e pastori non hanno alternative alla migrazione, anche se molti non hanno i soldi per andare all’estero e affollano i viali della capitale.Mani cinesi sulle infrastruttureI golpisti si stanno muovendo velocemente anche su questo fronte. I protagonisti però non sono russi, ma cinesi. Compagnie di Pechino si sono appena assicurate l’esplorazione di un nuovo giacimento d’uranio e di campi petroliferi. Solo per la licenza degli idrocarburi pagheranno quattrocento milioni di dollari in quattro anni. Nessuno sa come la giunta investirà questi fondi, se li userà per i suoi programmi di riarmo o per dare sollievo ai disperati. Quanto l’influenza cinese sia diventata pesante lo si è capito durante uno scontro accaduto nella stessa settimana: una lite con il Benin, dove ci sono i porti più vicini al Niger e c’è il terminal di un oleodotto che trasferisce l’oro nero nigerino sulle petroliere di Pechino. I golpisti hanno chiuso le frontiere, bloccando i camion che portano le merci sbarcate via mare, poi hanno rullato i tamburi dell’orgoglio nazionale e scandito proclami marziali. Si è temuto che la situazione degenerasse in conflitto e allora è scesa in campo la diplomazia del Dragone. Dagli ospedali agli atenei, le infrastrutture del Benin sono state finanziate dalla Cina: la più importante è la ferrovia che porta proprio a Niamey, lanciata nel 2014 dal gruppo Bolloré e scippata dai cinesi quattro anni dopo con un’offerta da quattro miliardi di euro. In poche ore la diplomazia della Repubblica Popolare ha ottenuto una tregua, permettendo ai commerci e al petrolio di ricominciare a scorrere.In futuro però si serviranno di altri terminal: il colosso statale cinese Cncp sta costruendo a proprie spese l’oleodotto di 1.800 chilometri che andrà dai pozzi di Agadem al golfo di Guinea. In cambio avrà il 75 per cento del greggio estratto: il nuovo volto del colonialismo. Anche il braccio di ferro con il Benin è stato inasprito dalla retorica del complotto, che vede ovunque spie francesi e statunintensi che tramano nell’ombra. Lo esplicita l’attivista filorusso Ahmed Bello: «Quando li cacciamo ci sono sempre dei complotti per destabilizzare il Paese, le persone lo capiscono, lo vedono…».La mobilitazione degli istinti nazionalisti tenta anche di coprire i problemi della quotidianità: in Niger si producono in abbondanza riso, cipolle e miele; il resto deve essere importato con prezzi che l’inflazione rende impossibili. Latte, olio e medicine sono sempre più rari; la carne degli allevamenti, scarsa. I negozi praticamente non esistono e sui banchi dei mercati pochi giorni di chiusura della frontiera con il Benin hanno reso carissime le merci. Nella capitale l’elettricità va e viene, pure in pieno centro i blackout sono frequenti. La giunta dà la colpa all’Ecowas, accusandola di tagliare la corrente e mettere tasse sulle esportazioni. In realtà le sanzioni decise all’indomani del golpe sono state revocate, ma il costo della vita è comunque raddoppiato nel giro di pochi mesi.La lunga mano della TurchiaIntanto però il governo investe su altro. La mattina del 13 maggio la hall del Radisson Blu è stata invasa da una delegazione turca. Molti indossavano magliette simili a quelle delle squadre di calcio, con la mezzaluna ottomana, il nome delle società e spesso dei prodotti che promuovevano: in maggioranza erano di aziende militari. Spiccava su alcune t-shirt la sagoma dell’Hurkus, un aereo comprato pure dal Ciad per mitragliare le bande di guerriglieri. Nel silenzio più assoluto, Ankara ha allestito una base di droni nel Nord: da lì partono sei Bayraktar TB2, versione a lungo raggio del bombardiere senza pilota diventato famoso all’inizio della guerra ucraina. I russi faticano a consegnare sistemi hi-tech, necessari per il conflitto in Ucraina, ed ecco che qui come in Mali e in Burkina Faso lasciano spazio ai piazzisti turchi. Alcune fonti dell’opposizione siriana sostengono che Erdogan abbia proposto al Niger un pacchetto di mille mercenari siriani, la notizia però non ha trovato conferme. C’è da dire che i generali sono negoziatori molto scaltri, che cercano di vendere a caro prezzo la posizione strategica e le risorse del Paese.Le quotazioni dell’uranio continuano a salire e la giunta tiene sotto scacco i pretendenti russi, cinesi e iraniani intenzionati a rilevare la miniera usata finora dai francesi. Queste trattative – e quelle con i turchi sui droni – vengono gestite con enorme discrezione, mentre tutte le altre discussioni vengono filmate dalla tv di Stato. È successo anche agli ufficiali a stelle e strisce, venuti a Niamey il 16 maggio per discutere il ritiro della loro missione: mille uomini tra la capitale e la base 201 di Agadez, inaugurata solo due anni fa con una spesa di cento milioni. Per il Pentagono era un’infrastruttura fondamentale che permetteva ai droni di sorvegliare dal Mar Rosso all’Atlantico, dall’Equatore al Mediterraneo: l’unica del genere in tutta l’Africa. La Casa Bianca ha cercato in ogni modo di trovare un compromesso con i generali, in parte formati nelle loro accademie e inizialmente ben disposti verso gli Usa. C’è stata una lunga asta, in cui ha provato a compensare il blocco dei finanziamenti deciso all’indomani del putsch con l’aumento degli aiuti umanitari di Usaid. Gli statunitensi però non hanno più leve per esercitare un’influenza sulla popolazione e non si sono resi conto che i “patrioti” avevano aperto un’asta al maggior offerente. E soprattutto non hanno compreso il vento rivoluzionario del Sahel: alle idi di marzo hanno mandato a Niamey una delegazione d’alto livello per mettere in guardia in maniera assertiva dalle relazioni con Mosca e Teheran, ottenendo l’effetto inverso: «Ci hanno minacciati», ha detto senza mezzi termini il premier Ali Mahaman Lamine Zeine, l’unico civile del governo. Non è servito neppure invitarlo a Washington, un riconoscimento che un tempo avrebbe lusingato qualsiasi politico africano. La rottura è stata drastica, a cui si è aggiunto lo sfregio di dislocare nella base dell’Air Force i primi istruttori russi. Una provocazione, che il Pentagono ha nascosto per settimane sperando di trovare un modo per evitare la ritirata. Tutto inutile: il 19 maggio il sottosegretario Christopher Maier ha firmato con il ministro della Difesa Salifou Mody il calendario dell’addio. Entro il 15 settembre tutti i militari Usa dovranno essere fuori dal Niger.Nonostante la propaganda della giunta presenti la confederazione Aes – Alleanza degli Stati del Sahel, siglata il 17 maggio con il Mali e Burkina Faso – come la panacea per i guasti della regione, i generali nigerini non vogliono rompere tutti i ponti con l’Europa. Sentono la pressione dei terroristi – qui ci sono sia l’Isis, che Al Qaeda, spesso in lotta tra loro – che conducono attacchi sempre più violenti e temerari. Alle loro condizioni, permettono ai contingenti italiano e tedesco di proseguire l’attività di addestramento delle truppe nigerine. I nostri istruttori sono particolarmente benvoluti: «Gli italiani vanno bene – commenta la vox populi di Bukar Moussa -, cooperiamo con loro e non siamo stati delusi. L’Italia non è contro lo sviluppo di un Paese: abbiamo visto come ha aiutato i libici e come per questo la Francia l’abbia ostacolata in ogni maniera».Gli ufficiali della giunta si comportano però come se fosse una concessione, e non un beneficio per il loro esercito, tenendo alta la vigilanza sugli istruttori. La presenza italiana sorprende la comunità di imprenditori internazionali attivi in Niger perché particolarmente disinteressata al business, e in effetti non ci sono iniziative imprenditoriali mentre danno buoni frutti quelle della cooperazione. Ma Meloni e Scholz hanno l’identica visione e sembrano non curarsi del prezzo da pagare pur di restare a Niamey: sono convinti che – tra migrazioni, jihadismo e influenza russa – il futuro dell’Africa si giocherà qui.