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 2024  giugno 08 Sabato calendario

Intervista a Gavino Sanna

La casa è tutta bianca e nera, dai marmi dei pavimenti alle librerie, fino agli armadi dove in formazione impeccabile sono ordinate e incellophanate le camicie, tutte rigorosamente candide, da abbinare alle cravatte scure appese. Anche la cucina è bicolor. Ma quello che colpisce qui è la sensazione di intonso, mai usato. Eppure questo è l’appartamento milanese dell’uomo che ha fatto le fortune pubblicitarie di Barilla. «Non amiamo cucinare, abbiamo sempre mangiato in modo strano, per me cibo è quando mi siedo a tavola con gli amici in Sardegna».
Nel plurale che usa Gavino Sanna, 84 anni, c’è Lella. La donna che incontrò con un amico, che dopo cena lo riaccompagnò e a cui scendendo dalla Dyane disse: «Sono sue queste sigarette? Se vuol vedermi un’altra volta, le butti via». Lei smise di fumare e diventò la sua seconda moglie.
Negli Ottanta d’oro della pubblicità Sanna era il nome forse più gettonato. Con lui, che il mestiere lo aveva perfezionato negli Stati Uniti, nasceva il dopo Carosello, le campagne narrative (per primo ha girato uno spot di un minuto e mezzo, laddove non si superavano mai i 30 secondi) ed emozionali, come quella in cui una bambina metteva in tasca a papà un rigatone perché si ricordasse di lei. Fu sempre Sanna a fare di Giovanni Rana una star, che nella pubblicità interagiva con spezzoni di film famosi, o a mettere in bocca a Sophia Loren il prosciutto e lo slogan «Accattatev’illo».
E dopo aver lavorato per Barilla, Fiat, Perugina: oggi che cosa fa?
«Il vignaiolo, anche se sono da sempre astemio. Le mie bottiglie si chiamano Mesa, che in sardo è la tavola di casa, quella dove i vecchi si sedevano a consumare. Il nome mi è venuto in mente passeggiando a New York e vedendo scritta la parola su un’enorme vetrata».
Ma perché ha lasciato la pubblicità?
«Era il 2000 e mi ero rotto le scatole: non mi piaceva più, ero attorniato da gente che pensava solo al denaro e questo mi dava fastidio. La pubblicità oggi è spazzatura colorata, monnezza. Parla al consumatore pensando che tutti siano imbecilli che stanno a bocca aperta ad ascoltare».
Anche lo spot Esselunga della pesca, che qualcuno ha paragonato a un suo vecchio Barilla?
«Una roba così l’avevo girata moltissimi anni fa, ma non era andata in onda perché papà Barilla era divorziato e non se l’era sentita. Nelle nostre campagne però il tono di voce, l’educazione erano un’altra cosa. E poi c’era la musica: io ho scoperto il signor Vangelis, che ha dato cuore a quello che facevo. Questa invece è una sporcacciata».
Ha usato grandi testimonial, come Paul Newman. È vero che l’attore al mattino tuffava la faccia nel ghiaccio per distenderla?
«Sì, ma era un gran signore. Viveva a pochi passi dalla mia casa di New York ed ero andato a trovarlo. Gli chiesi se voleva fare Babbo Natale e mi guardò un po’ così, perché da loro i Babbi sono pupazzi davanti ai grandi magazzini. Poi invece si è travestito e abbiamo girato in Scozia con le renne».
Un attore con cui non ha funzionato?
«Catherine Deneuve era antipaticissima. L’avevamo chiamata per l’Acqua Fiuggi, se ne stava sempre chiusa in camerino. Quando ha finito, si è portata via una borsetta firmata che avevamo usato per lo spot».
Fra tanti nomi, chi è stato il primo importante?
«Frank Sinatra. Ero un ragazzo arrivato dalla Sardegna a Milano e mi aveva preso lo studio più importante, Sigla. Per la campagna di lancio nel mondo dei Baci Perugina avevamo chiamato un grande fotografo francese, girato su spiagge meravigliose... Ma il cliente andò su tutte le furie: che cosa sono queste porcherie? Dovevamo rifare, e avevamo finito i soldi. Così, prendemmo un fotografo di matrimoni, girammo con una bellissima segretaria, mentre io facevo il modello. Poi, l’agenzia scritturò Sinatra».
E che cosa successe?
«In studio a Cinecittà, Sinatra si sedette su un cavalletto e cantò dieci meravigliose canzoni. Alla fine, stava andando via. Noi però volevamo dicesse “Ovunque c’è amore c’è un Bacio Perugina”. Fece un gestaccio e ci mandò affanculo. L’operatore, che aveva registrato tutto, ci suggerì di doppiarlo sostituendo all’insulto la parola amore. Fu il primo miracolo. Anche se la cosa di cui sono più fiero nella carriera è aver aperto le porte alla pubblicità contro l’Aids».
Quella con l’alone viola intorno a chi era contagiato?
«Suscitò polemiche, ma al festival della pubblicità di Cannes vinse il Leone d’oro».
Quando girò i Baci, aveva già il taglio a caschetto per cui è famoso?
«No, me lo fece poi un parrucchiere milanese a New York. Non l’ho mai cambiato».
A New York conobbe Andy Warhol...
«Ero andato a studiare l’inglese alla New York University e leggo una targa: “Teacher Andy Warhol”. Insegnava cinematografia, e mi ha preso come alunno. Ma lo accompagnavo anche a comprare le calze: le voleva a righe, una su e una giù, continuava a provarne e mi chiedeva consiglio, alla fine siamo tornati senza».
Che cosa le ha insegnato?
«Non a disegnare. Anche le scarpe da donna che lui disegnava per un’agenzia di pubblicità non erano granché».
Prima di tornare a Milano, si è anche sposato.
«Con una hostess della Pan American. Che poi, mentre uscivamo dal cinema, mi chiese il divorzio. Il giorno seguente ero fuori casa. Dopo, l’agenzia Benton & Bowles cercava qualcuno che aprisse a Milano. Io stavo bene dov’ero, facevo le campagne Revlon con modelle bellissime Così, sparai richieste assurde, compreso un aereo personale per tornare in Italia e loro mi dissero solo: ci dica quando è pronto. Sono tornato».
E adesso?
«Scrivo libri e in questo periodo sto ad Alghero. Devo girare una ventina di filmini che mi ha chiesto il sindaco per far riscoprire Porto Torres, la mia città. Ci saranno il mare, i paesaggi, e poi il primo piano di due persone: una cambia sempre, l’altro sono io».