Corriere della Sera, 8 giugno 2024
«I miei 33 anni in carcere sapendo di essere innocente Ora vorrei curarmi i denti»
Gli ultimi, i dimenticati. Se qualcuno potesse essere scelto come legittimo rappresentante di queste due condizioni, l’uomo che ho davanti, un solo dente nella bocca, lo sguardo dolce e la voce bassa, quasi impercettibile, sarebbe il naturale candidato. Si chiama Beniamino Zuncheddu, di professione pastore, trentatrè anni in carcere da innocente.
È entrato a ventisei anni, accusato di aver compiuto la strage di altri pastori, ed è uscito qualche mese fa, a quasi sessanta. Una vita sottratta. Non un matrimonio, non dei figli da vedere crescere, non un lavoro o una casa conquistata con la fatica della propria opera. Niente, una condanna a morte dissimulata in un ergastolo.
Se lo erano dimenticato là dentro. Mi dice Beniamino: «Tutti i detenuti si dicono innocenti, ma io lo ero davvero. Non sapevo di cosa stessero parlando, quando mi accusavano. Vennero una sera a prendermi. Erano vestiti con la tuta mimetica. Mi hanno detto che dovevo andare in commissariato per degli accertamenti. Mi hanno interrogato per ore su cose di cui non sapevo nulla. Mi hanno fissato il polso a un termosifone che stava più in alto della sedia su cui ero seduto. Sono restato così tutta la notte, la mattina non sentivo più il braccio. Poi mi hanno portato in carcere e, da quella notte, la prima volta che ho rivisto il sole è stata undici anni e mezzo dopo».
Mauro Trogu, un giovane avvocato che ha dedicato anni a combattere per la revisione del processo, dice che di quell’interrogatorio, reso senza la presenza di un difensore, non esiste traccia nei verbali. Comincia così, l’odissea di questo pover’uomo che è stato vittima di un clamoroso errore giudiziario che gli ha sottratto la polpa della vita.
Tutto è raccontato in un libro che descrive la vicenda. Si intitola, e mai il nome di un libro è stato tanto aderente alla realtà, Io sono innocente.
I pastori assassinati
È una storia complicata. La sera dell’otto gennaio 1991 quattro uomini stanno lavorando a Cuili’e Is Coccus, un ovile collocato su una altura che sovrasta il paese di Sinnai (Cagliari). Sono Gesuino Fadda, suo figlio Giuseppe, il servo pastore Ignazio Pusceddu e il genero di Gesuino, Luigi Pinna, marito della figlia Daniela.
All’improvviso spunta un uomo che prima uccide il capofamiglia con un colpo di fucile semiautomatico sparato con precisione alla base del collo, poi insegue gli altri tre che sono rifugiati nell’ovile. Giuseppe è freddato con un colpo della stessa arma, sparato in petto. Gli eventi concitati di quei momenti sono così descritti nel libro: «Il killer entrò nel fabbricato e dalla cucina urlò, in italiano: “Fuori di lì, fuori di lì!”. Poi aprì violentemente, forse con un calcio, la porta sgangherata che Ignazio e Luigi avevano chiuso. Nella stanza penetrò un fascio di luce giallognolo che tagliava l’estremo lato destro della camera (la luce arrivava dalla lampadina al centro della cucina, quindi dalle sue spalle a sinistra).
L’assassino entrò rapido nel dormitorio, attraversò il cono di luce e, inquadrata la posizione delle vittime, si spostò verso di loro, al centro della camera immersa nel buio. Ignazio era accanto alla porta, a sinistra, in piedi davanti a una branda. Luigi era in fondo alla stanzetta, ancora più al buio».
Il killer uccide Ignazio e poi spara due colpi, uno al femore e l’altro alla testa, di Luigi Pinna. È convinto di averlo ucciso, ma non è così. Quando verrà trovato, ferito gravemente, dirà, così riferisce un maresciallo dell’Arma che: «Era una persona robusta con un giaccone bianco e una calza da donna al capo, armato di fucile a una canna corta».
L’identikit del killer
Beniamino Zuncheddu non è robusto, anzi, non parla l’italiano che il ferito riferisce aver sentito usare dal killer, e non ha mai avuto un’arma in mano in vita sua.
Ma dal primo momento le indagini finiscono in mano a Mario Uda, un uomo della Criminalpol che tanto farà fino a portare, mostrando foto e convincendo testimoni, all’incriminazione di Zuncheddu.
L’avvocato Trogu: «Beniamino fu scelto perché era una persona per bene, indifeso, straniero in quel mondo che non conosceva affatto. Gli attribuirono una frase in un presunto diverbio con la famiglia Fadda per una questione di vacche e convinsero i giudici che questa fosse sufficiente ragione per una strage che sembrava studiata ed eseguita con la professionalità del killer de I tre giorni del condor. La sera dei delitti, Beniamino la passò da un suo amico tetraplegico con il quale condivise sigarette e chiacchiere. Non aveva l’orologio e non era in grado di definire orari precisi. Qualsiasi killer si costruisce un alibi perfetto se deve uccidere qualcuno. Le indagini furono orientate o non fatte. I magistrati fecero un sopralluogo nel posto della strage ma non la cosa più semplice, mettersi nella posizione fisica in cui si trovava l’unico testimone, Pinna. Se lo avessero fatto, come era loro dovere, si sarebbero resi conto che da lì, al buio, non si poteva assolutamente percepire i lineamenti di una persona. Pinna invece aveva riconosciuto Beniamino in una foto di sospettati che Uda gli aveva fatto vedere per prima».
Ma perché decidono di incastrare Zuncheddu, chi volevano coprire e perché? Nella risposta che l’avvocato mi fornisce sta racchiusa una dinamica che sembra estratta da un romanzo di Leonardo Sciascia. Il bene e il male si lambiscono, si incrociano, si contaminano e finiscono con il confondersi.
Il rapimento Murgia
«La storia della strage deve essere collegata a un rapimento avvenuto tempo prima, il rapimento Murgia. Probabilmente la famiglia Fadda aveva visto qualcosa, sapeva qualcosa, chiedeva qualcosa. Forse aveva a che fare con i cento milioni del riscatto pagati dalla famiglia che non arrivarono ai sequestratori. Va detto che in quel periodo un magistrato, il dottor Lombardini, agì duramente per sconfiggere l’anonima sequestri. Per farlo aveva messo in piedi una rete di informatori e una struttura quasi parallela che ha continuato ad agire anche quando lui non aveva più il compito di queste indagini. Tra gli informatori c’era anche un certo Boi, uno dei rapitori di Murgia e che, guarda caso, prenderà poi possesso dell’ovile dei Fadda. Boi aveva dimestichezza con i sequestri e le armi, aveva avuto ragioni di conflitto con i Fadda. Forse su di lui si sarebbero dovuto orientare le indagini, se solo si fosse messa in relazione la strage con il sequestro Murgia. Relazione che è contenuta in atti della questura di Cagliari che però non sono mai stati versati nel processo e sono letteralmente spariti per trentadue anni. L’ipotesi più probabile è che Boi fosse un informatore prezioso per gli inquirenti e che per salvaguardarlo abbiano deciso di sacrificare il più indifeso di tutti, il silenzioso, timido, discreto pastore Beniamino Zuncheddu».
Il giudice Lombardini nel 1998 verrà inquisito dalla Procura di Palermo per estorsione nei confronti del padre di Silvia Melis, un’altra sequestrata. La storia ha un esito tragico. I magistrati di Palermo vanno a Cagliari per interrogare Lombardini, poi chiedono di perquisire il suo ufficio, lui si offre di accompagnarli ma poi nel corridoio affretta il passo, si chiude dietro le spalle la porta e si spara un colpo di pistola. Da quel processo, va detto, gli altri accusati usciranno assolti. Su Luigi Lombardini i giudizi divergono, ma è un fatto che fu protagonista, con successo, della lotta contro la disumana macchina dei sequestri. Anche se usava metodi, si dice, non sempre ortodossi. L’avvocato Trogu: «La cosa strana è che tutti i protagonisti di questo gigantesco incastro che imprigiona un innocente pensavano di agire in nome della giustizia. Una giustizia sovraordinata, che prescinde da regole e leggi e che, proprio perché animata dal “buon fine”, si considera al riparo da ogni limite. Zuncheddu viene sacrificato, forse per coprire un informatore di cui si aveva bisogno per condurre una lotta contro la criminalità. Todo Modo».
Giorni interminabili
Beniamino come era la sua vita in carcere? «Ogni giorno uguale, per decine di anni. Le due ore d’aria al giorno, la televisione sempre accesa, le interminabili partite a carte. Eravamo in undici in cella, tre per ognuno dei tre letti a castello, due per terra. Un solo bagno, la finestra non c’era, esisteva solo la “bocca di lupo”. È stata molto dura. Ho visto ragazzi che si tagliavano le vene. Io mi sono sempre comportato bene. Infatti dopo undici anni e mezzo mi hanno dato la possibilità di uscire in permesso premio per tre giorni. Però dovete pensare cosa significa fare quella vita sapendo di essere innocente. È da impazzire, mai io non sono impazzito. Io mi considero un sopravvissuto».
La riapertura del processo si deve alla testardaggine della famiglia di Beniamino, alla determinazione dell’avvocato per il quale la causa di quest’uomo era diventata una «magnifica ossessione», all’impegno di Irene Testa dei radicali ma, fattore decisivo, all’umanità e alla professionalità della dottoressa Francesca Nanni, che, come un angelo, è stata Procuratore generale a Cagliari per due anni, il tempo necessario per dar vita a una serie di nuovi accertamenti, tra i quali un interrogatorio di Pinna, al termine del quale l’uomo, intercettato in auto, dirà una frase, in sardo, che convincerà chiunque che la identificazione di Zuncheddu era stata estorta. Una grande magistrata, assetata solo di verità e di giustizia.
Questo dato nuovo, insieme al lavoro della difesa, porterà nel gennaio di quest’anno la Corte d’appello di Roma ad assolvere e scarcerare Beniamino Zuncheddu.
E ora, chi risarcirà per questo tempo perduto? L’avvocato Trogu: «Zuncheddu ha ottenuto finora il risarcimento di 30.000 euro per gli undici anni in una cella sovraffollata, otto euro per ogni giorno trascorso in quelle condizioni. Tra qualche giorno potremo depositare l’istanza per il risarcimento. Ma nel caso migliore ci vorranno quattro anni, nel peggiore otto».
Fine pena mai, anche per un innocente al quale è stata strappata la vita.
Chiedo a Zuncheddu quale sia ora il suo desiderio di uomo libero. «Curarmi. I denti, gli occhi. E tutto il resto. E poi ritrovare la mia famiglia, la mia terra, scoprire il mondo come è diventato».
Beniamino Zuncheddu, ergastolano innocente, due giorni dopo la sua liberazione ha avuto, non per caso, un’ischemia con una emiparesi.
La libertà, non va mai dimenticato, è sempre una meravigliosa emozione.