Corriere della Sera, 8 giugno 2024
Le donne di Biden Jr.
La cognizione del dolore di Hunter Biden sfila quotidianamente nell’aula del tribunale federale di Wilmington, Delaware, sotto forma delle donne della sua vita. C’è la moglie, Melissa Cohen Biden, che davanti ai fotografi lo tiene per mano nascosta dietro le lenti degli occhiali scuri; c’è la seconda moglie di suo padre Joe, la first lady Jill; c’è l’ex moglie Kathleen Buhle, ventiquattro anni insieme, tre figli; c’è Hallie Biden, vedova del fratello di Hunter, Beau, il fratello ufficiale delle forze armate e reduce del Golfo con ambizioni politiche, l’opposto del caotico, etilista, tossicodipendente Hunter; c’è l’ex spogliarellista Zoe Kestan che con Hunter Biden ebbe una relazione nel 2017-2018, all’apice della dipendenza da alcol e cocaina di lui.
In questo strano gineceo di donne in carne e ossa – presenti chi per solidarietà e affetto e inevitabile convenienza politica, chi per la convocazione sul banco dei testimoni – ci sono poi due fantasmi: quelli di Neilia Biden, la madre di Hunter, e di Naomi, la sorellina neonata, morte nell’inverno del 1972 nell’incidente d’auto che ha alterato per sempre la storia dei Biden (i piccolissimi Hunter e Beau riuscirono a sopravvivere all’impatto, terribile, con un camion: oggi Hunter è l’unico superstite).
In uno dei tanti aspetti paradossali di questo processo, in quella che Paul Auster nel suo penultimo libro definì Bloodbath Nation, «nazione della carneficina» nella quale ci sono quasi 400 milioni di armi da fuoco, più di una per ogni abitante neonati compresi, è che Hunter Biden rischia 25 anni di carcere per aver comperato una pistola, un revolver Colt, nel 2018, in un periodo della sua vita nel quale faceva uso di droga (tra i testimoni il commesso dell’armeria che gli fece firmare la dichiarazione). I repubblicani, ansiosi di pareggiare i conti per la storica condanna penale di Trump e finora incapaci di trovare qualcosa di penalmente rilevante contro il padre di Hunter sono per questo concentratissimi sulle malefatte del figliol prodigo, anche se la libertà pressoché assoluta di possedere armi sia da decenni un caposaldo della loro filosofia, e un tema popolarissimo nella base elettorale.
Hunter è sotto processo per tre reati derivanti dall’acquisto di una rivoltella nell’ottobre 2018, incentrati su false dichiarazioni su un modulo federale riguardo al suo uso di droga, pur essendo rimasto in possesso della pistola per soli undici giorni prima che Hallie Biden, che aveva trovato l’arma nella sua auto, la gettasse in un bidone della spazzatura (per proteggerlo, ma provocandogli così un mare di guai legali, col senno di poi).
Le testimonianze
Le persone vicine a lui spesso lo difendono, ma non nascondono informazioni spiacevoli
Hunter ha raccontato con pochissimi filtri nella sua autobiografia (Cose belle edita in Italia da Solferino) gli anni delle dipendenze e il lutto per la morte di Beau. E l’avvocato di Hunter, Abbe Lowell, uno dei migliori penalisti d’America, sta cercando di mettere in dubbio parte dell’impianto accusatorio che ha riportato in vita il mitologico presunto computer di Hunter che sarebbe stato dimenticato da uno strano riparatore e poi consegnato a Rudy Giuliani vicinissimo a Trump. I messaggi che verrebbero dal computer sono secondo la difesa, e i suoi periti, inaffidabili perché potrebbero essere stati modificati, anche se in origine fossero stati autentici.
Cosa resta? Le testimonianze, appunto. Delle persone vicine a Hunter, che spesso lo difendono ma non nascondono informazioni spiacevoli: Hallie Biden—– prontamente finita in prima pagina sul murdochiano New York Post che grufola senza sosta tra i particolari più spiacevoli del processo contro quello che è e rimane un privato cittadino – ha ammesso che, durante la breve relazione con Hunter, anche lei fece uso di droga. I problemi di Hunter con il crack vengono sviscerati dai testimoni, con Kestan che ha ammesso che lui fumava la cocaina in forma solida ogni venti minuti durante i loro incontri.
E, tra le donne del processo, c’è anche l’agente del Fbi Erika Jensen che ha ricostruito le spese pazze di Hunter tramite i movimenti bancari del 2018, ma non è stata in grado di garantire che i messaggi estratti dal computer di Hunter non siano stati modificati prima di finire in mano ai federali.