il Fatto Quotidiano, 8 giugno 2024
Che flash fiction signora Williams, regina dei ritratti
Ci sono opere che disorientano perché rappresentano qualcosa di nuovo, di mai intercettato prima e pertanto vien da chiedersi se esista un libretto di istruzioni per capire cosa l’autore miri a esprimere, trasmettere, dire, come se il messaggio dovesse essere univoco. È lì che sta l’errore.
I racconti della newyorchese Diane Williams – 78 anni, formatasi prima con Philip Roth e poi col temibile Gordon Lish, editor di Carver, da cui aveva appreso (e poi trasformato) una rigorosa tecnica di editing, e pazienza se lui si rifiutò di pubblicarle un romanzo dicendo che la sua scrittura scarna ed eccentrica le avrebbe spezzato il cuore e procurato anni di porte in faccia: aveva torto! – sono fulgidi esempi di flash fiction (micro-racconti di non più di mille parole) e vanno approcciati senza pretesa d’interpretazione, men che mai immediata.
Nella raccolta (una delle sue undici) Insomma siete ricchi, con cui Black Coffee la presenta ai lettori italiani, per 33 volte si è catapultati in un frangente – “Ero arrivata all’edificio che era una chiesa con un soffitto alto e una lunga scala che scendeva, e una donna m’inseguiva”; “Ero Diane Williams e lasciavo la città e anche la mia famiglia, oltre a una situazione che mi aveva sopraffatta”; “Lui è una figura con cui ho avuto un rapporto per anni, con scene legate a quegli anni che hanno una valenza quasi religiosa” – e poi fulmineamente trasportati altrove, lontano da ogni previsione.
Williams gioca con la scrittura con ostinata sperimentazione, ingaggiando un confronto ardito con le parole, stabilendo quanto spazio debbano occupare e come. E se si tratta di due righe di numero – come ne Il realista: “Non puoi pensare davvero che mi piaccia una cosa del genere!”, e con questo riconsegna il regalo alla moglie. “Ho mai posseduto qualcosa di simile?”. “Sì, me!” o in Souvenir: “Ho ricevuto un cazzo forte e liscio che si era quasi sollevato da solo, una vera impresa, ma non me lo sono saputa tenere” – così sia. Non conta avere familiarità col genere, importa abbandonare schemi o pregiudizi. Vi irriterete? Può essere. Dovrete rileggerli più volte? Probabile (che non possiate farne a meno). Se la mente resta aperta le immagini che Williams dipinge (vi) parleranno. Di cosa? Di quotidianità, gesti conosciuti e routinari, dinamiche sentimentali (matrimoniali in primis), figli e genitorialità, disallineamento comunicativo, frustrazione, rabbia inesplosa, ricerca della libertà (quando ci si sente intrappolati). Ogni storia è una pennellata su una grande tela. Nulla si sa del passato dei personaggi e non vi è alcun indizio sul loro futuro, solo un breve sguardo sulle loro vite presenti. La scrittura costringe a rimanere osservatori e lo spazio normalmente occupato dalle emozioni manifeste è intenzionalmente lasciato vuoto. Ognuno colga, di sé e della sua esistenza, ciò che vuole.
Preziosa la prefazione della traduttrice Chiara Barzini che quando scoprì Williams restò stupita da quella lingua così asciutta eppur epica e si domandò se si trattasse di poesie, iper short stories, haiku narrativi o fotografie letterarie. A oggi definisce i suoi racconti “violenti e primordiali come leggende antiche”. Una chicca consigliata agli estimatori di Lydia Davis, Ottessa Moshfegh, Christine Schutt.