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 2024  giugno 08 Sabato calendario

Rossella Jardini racconta il suo legame indissolubile con il creatore della casa, morto di Aids nel ’94: “Complementari nel lavoro come nella vita”


“Capricorno ascendente Hermès”. Così si definisce Rossella Jardini nella sua biografia su Instagram. E non potrebbe esserci sintesi più azzeccata della sua personalità eclettica e tremendamente chic. D’altra parte, a definirla così è stato quel genio di Franco Moschino, lo stilista che in un certo qual modo è stato l’uomo della sua vita. Sì, perché forse non tutti sanno che insieme hanno fondato Moschino, la casa di moda che Rossella ha poi portato avanti da sola per vent’anni dopo la morte del creativo, stroncato nel ’94 dall’Aids. Nel lavoro, come nella vita, erano complementari. Lui aveva l’idea, la visione, il guizzo geniale con cui trasformare una semplice t-shirt bianca in un’icona. Lei sapeva come realizzare quei capi, trasformando le sue idee in realtà tangibili. Era il suo braccio destro, la sua musa, la sua migliore amica, la compagna di tante avventure. Sempre, però, un passo dietro di lui. “Sa perché ho comprato questa casa?”, dice Rossella accogliendoci nel suo salotto arredato come una camera delle meraviglie. “Perché da quella finestra in fondo al corridoio si vede il primo studio dove Franco e io abbiamo iniziato a lavorare, in via Cappuccini. Gli volevo così bene. Avrei fatto di tutto per lui”.
Quando parla di lui si commuove ancora. A 30 anni dalla morte di Franco Moschino, ha deciso di raccontare la loro storia, la sua storia, in un libro, Ma chi l’avrebbe detto? (La nave di Teseo) scritto dal giornalista e critico di moda Antonio Mancinelli. Un volume dal titolo volutamente provocatorio, perché “dopo la morte di Franco tutti pensavano che la Moschino fosse finita. Non sapevano che io lavoravo con lui da sempre, che il nostro rapporto era più che fraterno. Quando Franco mi diceva di occuparmi delle collezioni perché doveva dipingere i suoi quadri, io prendevo in mano la situazione e andavo avanti. All’indomani del funerale ero di nuovo in ufficio a rimboccarmi le maniche. Ho fatto di tutto, dall’amministratore delegato alla designer, senza avere neanche il tempo di elaborare il lutto. Dovevo portare avanti l’azienda. Lavoravo come se lui fosse semplicemente nella stanza accanto. Le prime notti dopo la sua scomparsa mi è capitato spesso di sognarlo. Mi diceva: ‘Guarda che torno e facciamo una sfilata’”. Rossella è un fiume in piena e interrompe il suo racconto solo per accendersi una sigaretta dopo l’altra. Bella, il suo cane King Cavalier, russa sonoramente sulla poltrona di fronte a noi. È stata al suo fianco fino all’ultimo, in tempi in cui l’Aids era ancora un tabù. “Ricorderò per sempre quando Franco ebbe la prima manifestazione della malattia, con un’encefalite acuta. Non era lucido, mi chiamava ‘Maria Callas’. I medici mi dissero che non c’era niente da fare. In realtà, dopo 15-20 giorni eravamo insieme a Cannes e si era ripreso perfettamente”. Ma all’epoca non c’erano le cure di oggi e la malattia non gli ha lasciato scampo: “Quando ha iniziato a stare male, mi chiese di portarlo via dalla clinica: affittai la villa di una principessa sul lago di Annone, in Brianza, e lui si trasferì lì. Ogni sera andavo a trovarlo con qualche collaboratore. Poi mi sono trovata da sola a sbrigare tutte le pratiche, inclusa la scelta della bara. Mi sembravano piccole per Franco, così chiesi all’impresario delle pompe funebri ‘scusi è sicuro che va bene la misura? È alto più o meno come lei’. E lui per tutta risposta saltò dentro la cassa per dimostrarmi che ci stava. Scegliere gli interni fu un dramma: avrei voluto un raso di seta ma usavano solo poliestere e non c’era tempo per sostituirlo. Tra me e me pensai ‘Franco, perdonami’”. Lei e Moschino provenivano da mondi apparentemente distanti: lui un ragazzo ribelle di Abbiategrasso; lei una giovane altoborghese della provincia di Bergamo. Eppure, la loro collaborazione fu una scintilla tra due opposti che si attraggono e si riconoscono a vicenda. Tutto iniziò nel 1983 quando lavorava da Bottega Veneta: le chiese di lasciare il posto e affiancarlo nell’apertura del suo marchio, e lei non ci pensò due volte.
Insieme creavano, viaggiavano e si divertivano: “Il primo giorno mi fece trovare in ufficio una tenda fatta con i foulard di Hermes perché sapeva che ne vado pazza. Facevamo le vacanze 15 giorni fingendo di essere una coppia etero e altri 15 giorni gay, era un gioco tra noi. Mi vestiva da uomo per farmi entrare con lui nei club, poi in ufficio diceva a tutti: ‘se non avete idee, copiate come è vestita Rossella’. Il nostro era un legame speciale, lui era geloso dei miei fidanzati e affibbiava a ognuno un soprannome. Un anno affittammo una casa a Londra per Natale, in cucina c’era lo chef di Lady Diana”.
Eleganti, mai banali e con quel pizzico di trasgressione tipico dell’epoca, lo stile Moschino era un perfetto mix dei loro caratteri. Tanto che anche agli addetti ai lavori risulta difficile riconoscere a bruciapelo se un capo sia delle collezioni di Franco o delle successive riedizioni di Rossella.