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 2024  giugno 07 Venerdì calendario

Intervista a Michelangelo Pistoletto

Il maestro dell’Arte Povera Michelangelo Pistoletto ha novant’anni e la faccia e il fisico di Sean Connery. È in completo nero, giacca coi polsini di pelle. Per ore, fa su e giù per la stanza cercando di spiegarmi come l’arte l’ha portato a scoprire la «Formula della creazione» detta anche del «Terzo paradiso» ed esposta all’Onu di Ginevra e ad Assisi, e del perché la sua Venere degli stracci chiama per nome le coscienze di tutti noi. Cammina, si accalora, parla di pace preventiva e demopraxia e di come tutti noi, insieme, possiamo ancora salvare il mondo. Si ferma, sbotta: «Sembra che mi carichi dell’universo, ma per forza: è tutto sballato». La Fondazione Pistoletto Città dell’arte Biella è popolata di giovani che seguono corsi che vanno da Moda Sostenibile a Design e Arte per la Trasformazione Sociale Responsabile. Sono ventisettemila metri quadrati, dove il maestro ha ritagliato per sé questa sala da pranzo con due suoi quadri specchianti alle pareti e un tavolo ingombro di carte e poi un salottino, cucina e due camere monacali. Gli chiedo se è qui che crea e se crea ancora oggetti oltre a idee. Lui: «In questa casa, non c’è distinzione tra vita e lavoro». Finalmente, si siede. Mi mette davanti una ceramica verde fatta di tre ciotoline attaccate: due ai lati, una più grande al centro. Chiedo: l’ha fatta lei? «No».
A che serve?
«A niente. Ricalca il segno del Terzo paradiso. Potrei mettere un liquido di un colore di qua e un altro qui che passerebbero al centro diventando un colore che non esisteva: è uno strumento domestico nel quale c’è la formula della creazione. Ogni cosa nell’universo come nella quotidianità è data dal connettersi di due elementi che ne creano un terzo. La natura e l’ingegno umano creano, incontrandosi, la società. Da qui, la teoria della trinamica: uno più uno fa tre. L’ha apprezzata anche Guido Tonelli, lo scopritore del Bosone di Higgs».
Mi faccia un esempio adattato alla vita quotidiana.
«Qualunque coppia funziona così. Io e mia moglie da 57 anni siamo le due persone del Terzo paradiso che, incontrandosi qui al centro, formano un piccolo grande governo. Non siamo sempre in accordo, lei ha un’autonomia fortissima. Io mi sveglio alle cinque del mattino, scrivo un pizzino della giornata da mettere in pratica con la sua collaborazione e il confronto fra noi genera qualcosa che prima non c’era».
Come è nato il simbolo?
«L’ho disegnato sulla sabbia incrociando due volte la linea dell’infinito. Ma nasce dai quadri specchianti, che accolgono l’infinito perché vi si rispecchia tutto ciò che esiste».
Perché mentre dipingeva il primo ebbe uno shock e dovette sospendere il lavoro?
«Stavo raffinando un fondo nero per renderlo lucido: nella luminosità cercavo la mia identità e le risposte che mi ponevo da bambino: chi sono? Perché esisto? Lavoravo sull’autoritratto, ma non avrei immaginato che avrei visto apparire anche tutto quello che c’era dietro di me, cioè la verità, poiché io ero dipinto da me e quindi non ero vero, ma era vero ciò che appariva dietro di me e questa era la rivelazione totale. Lo specchio accoglie tutto: lo spazio e il tempo; la massa e l’energia».
E accoglie chi lo guarda.
«Cercavo me stesso e ho trovato il “noi”. Ho capito che nessuno può escludere gli altri e che l’incontro fra io e tu è il principio della società».
C’è un politico che ha fatto qualcosa di concreto per il Terzo paradiso?
«Un politico della politica in generale? No. No».
Cos’è la demopraxia che ha inventato?
«La parola l’ha creata mio genero Paolo Naldini, che dirige la Fondazione, sta per Demos, popolo, e praxis, pratica. Cerchiamo di realizzarla seguendo un libricino giallo dove c’è scritto tutto. Intanto, Biella è diventata Città Creativa Unesco e noi abbiamo incluso altri 74 Comuni, creando la Città Arcipelago, in cui il Terzo paradiso inizia a realizzarsi perché abbiamo tanta natura quanto artificio, ci sono campi, risaie, boschi, c’è la natura che diventa città, non è solo la città che si imbelletta di natura come fanno altrove. Riuniamo organizzazioni pubbliche e private in tavoli di lavoro su temi come l’energia pulita o produrre il cibo senza inficiare il suolo».
Lei che bambino è stato?
«A scuola, mi dicevano che dovevo credere in Dio e Mussolini, ma a casa non trovavo adesione in queste cose. Per cui, ero un bambino che cercava qualcosa in cui credere».
Primo ricordo?
«Il giorno del 1943 in cui mio padre aprì la porta del suo studio di pittore a Torino e trovò il pavimento sfondato da una bomba inesplosa: se fosse scoppiata, avrebbe ucciso tutti noi, ammassati sotto, nel rifugio antiaereo».
La sua prima opera?
«Il caso volle che mia madre m’iscrivesse a un corso di pubblicità grafica di Armando Testa e che, frequentandolo, vidi per la prima volta le tele squarciate di Lucio Fontana. Pensai: se un’artista ha il coraggio di produrre cose del genere, deve avere una motivazione e se io trovo la mia, posso essere un artista anch’io. Iniziai con gli autoritratti perché volevo conoscermi».
Il caso è un suo tema. Davvero la sua fortuna fu ascoltare, per caso, il suo gallerista Mario Tazzoli che parlava male di lei a Gianni Agnelli?
«Quando feci i quadri specchianti, lui non li capì, ma avevamo un contratto e perciò li espose. Lo sentii dire ad Agnelli: mi vergogno, è impazzito. Rimasi sconvolto e scappai a Parigi. Siamo nel’63, vado e Ileana Sonnabend, ex moglie di Leo Castelli, il gallerista newyorkese della Pop Art, vede un mio quadro, mi fa un contratto e mi ritrovo a esporre con Jasper Johns, Roy Lichtenstein e Andy Warhol. Il caso è stato un mio alleato, ma ci ho messo del mio: il caso è un gioco in cui devi prendere la palla al balzo».
Perché disse addio ai big della Pop Art nel giro di un anno?
«Perché, per stare con loro, mi si chiede di dimenticare di essere europeo. E perché la Pop Art ha come sfondo il sistema consumistico».
Mi racconta una sua discussione con Andy Warhol sulla mercificazione dell’arte?
«Secondo lei, io vado a parlare con Warhol che accetta di essere il marchio del consumismo? Io, nel 1964, ho convogliato artisti, poeti e musicisti nello Zoo per combattere l’imperialismo nell’arte e ho fatto gli Oggetti in meno: tutti diversi, coi quali nessuno poteva identificarmi. Ho fatto poi la sfera di giornali che va per strada e coinvolge la gente. Tutto quello che ho fatto coinvolge e attiva le persone».
Davvero la sua Venere degli stracci arriva da un rivenditore di statue da giardino?
«L’ho vista, l’ho comprata, l’ho portata nel mio studio. Non sapevo che farne. C’era un mucchio di stracci e le ho detto: tienimi su questi».
Come si spiega che sia diventata così iconica?
«Che ne so. La gente riconosce negli stracci qualcosa che vive quotidianamente, i propri abiti, la loro parte più dolorosa, che è lo spreco».
Perché si è sposato solo nel 2017? E perché a Cuba?
«Per avere una garanzia pratica reciproca. Eravamo all’Avana per un Forum dell’Onu ed era l’anniversario dei nostri 50 anni».
Com’era stato il primo incontro?
«Per caso, in una trattoria di Roma. Il giorno dopo, torno a Torino e decido di riprendere un treno per chiedere a Maria di venire con me».
Che aveva visto in lei?
«Quando sboccia qualcosa, non devi fartelo sfuggire. Io avevo già un’ex moglie e una figlia. Mentre andavamo a Torino, ho spiegato a Maria tutto quello che le sarebbe capitato. Era il periodo dello Zoo e, la sera stessa, ha trovato a casa il gruppo dei poeti, poi quello dei musicisti. Poi sono arrivate le gemelle, abbiamo fatto più vita di famiglia, ma tutta la famiglia è stata coinvolta nella Fondazione».
Ha mai pensato di fare il senatore a vita?
«No, e non ho tempo di andare là. Qui, creo quello che non c’è. Lì, devi essere al servizio quello che c’è».
A 70 anni dal primo autoritratto, la sensazione di non conoscersi le rimane?
«Rimane, ridimensionata. Oggi, io so che sono l’universo, ma non so cosa c’è oltre l’universo».
Per che cosa vorrebbe essere ricordato?
«Si ricorderanno di me senza pensare a me, perché avrò prodotto cose che in realtà avranno fatto i figli dei figli. Però, prima di salutarla, devo leggerle un pizzino».
Che dice il pizzino?
«Immortale non è essere, ma sapere di essere».