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 2024  giugno 07 Venerdì calendario

A che punto è la tregua?

Mai vista in Israele una guerra così lunga: otto mesi, oggi. Mai contati tanti morti: ormai quasi 39 mila. Mai mandati tanti soldati al fronte: 350 mila riservisti. Mai distrutte tante case: danni per 19 miliardi di dollari. L’unico record che Israele e Hamas non hanno ancora battuto è quello della lentezza. Sono nulla, le trenta di settimane a Doha per negoziare una tregua, in confronto ai cinque anni che ci vollero al Cairo per il rilascio d’un solo soldato, Gilad Shalit. «Non c’è tempo da perdere», esortano alla trattativa gli Usa e altri 16 Paesi (Italia compresa) che hanno cittadini in mano a Hamas. Un appello tanto corale quanto irrilevante: è difficile che il movimento islamico dia retta a Ue o Canada, che lo tengono sulla lista nera del terrorismo, ed è improbabile che Bibi Netanyahu ascolti governi non proprio amici suoi, dalla Spagna al Brasile.
È un pericoloso gioco degli specchi. Che sono già crepati e che possono frantumarsi. Nessuno dei due oppone all’altro un no formale a un cessate il fuoco, ma è come se lo facesse: Netanyahu, quando lascia che ad avanzare la proposta siano solo gli americani e intanto permette alla destra nazional-religiosa di far saltare tutto; Hamas, quando boccia l’idea d’una pausa – e lo fa rilasciando un’anonima intervista su un giornale saudita – e nel frattempo dice che l’offerta viene solo da Joe Biden, non da Netanyahu, e dunque non è credibile.
Più che una Road, una strada, questa Map indica un tratturo. E «non ci sono segni di svolta», dicono sconsolati i mediatori egiziani, qatarini e americani: il premier di Doha, lo sceicco Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, ha trascorso ore col super-007 del Cairo, Abbas Kamel, e col capo della Cia, William Burns, «ma ogni volta che rientravano nella stanza a trattare con Hamas e si collegavano con Tel Aviv – dice una fonte diplomatica – trovavano il muro».
La speranza
Nessuno tuttavia ha ancora detto un chiaro no alla fine delle ostilità
Che cessino d’odiarsi, è impossibile. Che cessino il fuoco, sembra improbabile. Il blocco è sulla prima fase del piano americano: la durata della tregua. Temporanea o totale? Nella bozza ne è prevista un’iniziale di sei settimane, assieme al ritiro di parte dell’esercito israeliano e al rilascio d’alcuni ostaggi, in cambio di detenuti palestinesi. A Bibi andrebbe bene: porterebbe a casa altre vite, potrebbe concentrare forze a Nord contro gli Hezbollah e si lascerebbe mano libera per una nuova offensiva. Hamas parla però d’«ambiguità e manipolazioni», vorrebbe togliere il limite delle sei settimane e passare subito alle fasi successive: la seconda, che stabilisce uno stop «permanente» dei combattimenti e un ultimo scambio di prigionieri, con la ritirata totale di Tsahal. E poi la terza, la più complicata: Hamas è d’accordo sulla ricostruzione di Gaza, naturalmente, ma rifiuta di disarmarsi e d’andarsene in esilio politico, come esige Israele.
Nessuno si fida dell’altro. E all’altro, nessuno può promettere granché. Se Ismail Haniyeh accettasse queste condizioni, lui che la guerra se l’è risparmiata al sicuro nei resort di Doha, dovrebbe poi spiegarle a Yahya Sinwar e a chi fin qui ha gestito l’operazione 7 Ottobre sotto le bombe. «Chi ci garantisce che Israele e Washington siano davvero in sintonia? – si chiede il leader di Hamas —. E chi dice che gli egiziani e i qatarini siano in grado di far rispettare l’accordo?».
Anche Bibi ha difficoltà a dire sì, stretto fra l’ultimatum del moderato Benny Gantz – il ministro del Gabinetto di guerra forse si dimetterà domani, in assenza d’un accordo sugli ostaggi – e le minacce dell’estrema destra sua alleata: il religioso Bezalel Smotrich non vuole si dialoghi con «terroristi dalle mani insanguinate» e il ministro Itamar Ben Gvir, ultrà colono, è pronto a far cadere il governo. Anche il capo della Difesa, Yoav Gallant, spina nel fianco di Bibi, pensa che sia meglio «negoziare mentre si continua a bombardare». Nessuna delle parti ha ancora detto un chiaro no alla tregua, però. E a Washington ci sperano: «Israele è una democrazia chiassosa – pensa Jake Sullivan, consigliere di Biden – ma la proposta è sul tavolo. E spetta a Hamas accettarla». Sono gli americani a menare la danza diplomatica perché di Netanyahu, ormai, si diffida. «Mio figlio Itay aveva 17 anni e Hamas l’ha ucciso», racconta Ruby Chen, papà d’un ostaggio israelo-americano: «Biden in persona m’ha telefonato per le condoglianze. Quelle di Bibi, le sto ancora aspettando».