La Stampa, 7 giugno 2024
In cerca di un sogno America
C’è qualcosa che non va nel sogno americano. Sta dando segni di cedimento. Mentre la guerra macchia i confini, gli estremismi dilagano incontrollati, la superficialità e l’ignoranza costruiscono la nuova supremazia, il vuoto lasciato dall’ideale libertario e culturale è una voragine in bella vista. Sembra che non ci sia più niente di buono proveniente da ovest e A.M. Homes si guarda intorno e vede il destino in compimento. Il suo sguardo, tanto letterario quanto critico, funge da scanner del reale. È una teorica del sogno, che condivide le tinte al neon di Bret Easton Ellis meno l’ossessione per il postmodernismo. Vive nel futuro, ma pensa al passato e questo ne fa una delle più interessanti voci della letteratura contemporanea fin dalla pubblicazione del suo primo romanzo.
Il suo ultimo libro, Il complotto (Feltrinelli, traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini), è anche la sua prima lettura politica. Satirica, disincantata, mordace. È il suo modo di guardare la società globale sgretolarsi e l’amministrazione corrompersi. Intanto, chi dovrebbe tenere il timone va alla deriva e i pirati prendono il comando.
Si sente nostalgica?
«Siamo tutti nostalgici, ultimamente. Ma no, in realtà no. Mi sento come se venissi da una sfilza di occasioni sprecate. Ma non solo: dal montare di un sentimento razzista, sessista, oppositivo, antidemocratico, che però si spaccia per il baluardo della democrazia».
In che senso?
«Ho cominciato a scrivere Il complotto perché avevo la sensazione che qualcosa stesse per accadere. Non sapevo cosa, ma sapevo che avrebbe in qualche modo sovvertito il sistema, che avrebbe dato ai cattivi una via d’uscita. Volevo che contenesse l’assurdità di un periodo politico inspiegabile e ho inventato un gruppo dissidente che, appoggiandosi a valori conservatori al limite del fascismo, si schierasse in difesa di una supposta democrazia perduta. È QAnon, solo che al tempo non ne conoscevo l’esistenza, e ancora non riesco a spiegarmelo».
Un sistema di valori al contrario…
«Ormai tutta la comunicazione politica è basata sulla supposta esistenza di una “realtà alternativa” e sulla diffusione di “fatti” che non lo sono. Si può aspirare a sovvertire un governo democratico e chiamarla democrazia».
I cattivi stanno vincendo?
«Forse sono i buoni che si stanno abituando a perdere. La politica ormai è qualcosa di talmente distante dalla normalità che non ha più alcun senso. È sempre stata una questione di soldi, ma ormai non c’è più nient’altro».
È la fine del sogno americano?
«L’America ha bisogno di nuovi sognatori».
Ce ne sono in giro?
«Di sicuro non nella classe politica. Trump pensa solo a Trump. Non ha valori, non ha cultura, non sa nulla della storia. Non gli importa niente del suo popolo, né di amministrarlo. Non ha una visione, né interna né estera, e questo è un grave problema: stiamo vivendo una serie di piccole guerre mondiali e abbiamo bisogno di coordinamento globale, non possiamo metterci nelle mani di un egocentrico ignorante».
Siamo in bilico?
«Siamo costantemente sull’orlo di una crisi. L’equilibrio è sempre più precario».
E quindi, dove sono i sognatori?
«Gli americani hanno cominciato a nutrire sogni sempre più privati: il sogno americano è un’aspirazione al benessere personale, una sorta di evoluzione del sogno televisivo degli anni Novanta. Si sta perdendo il concetto di collettività che è stato per decenni alla base dei valori del nostro paese. Questo supposto potentissimo e democraticissimo paese».
Si sente antiamericana a pensarla così?
«Per niente. Lei ha una madre?»
Sì…
«Ecco. Le madri sono capaci di amare incondizionatamente e contemporaneamente essere estremamente critiche nei confronti dei propri figli. Io celebro il mio Paese, che somiglia sempre di più a un adolescente viziato e ribelle, mettendone in risalto i limiti, le storture, l’indomita, inalterata e in qualche modo pura arroganza».
Le idee migliori vengono da tempi turbolenti…
«Non so cosa possa venire da questo caos. L’elezione di Trump e la pandemia hanno fiaccato gli animi, soprattutto dei più giovani. Hanno tolto a molti una buona dose di speranza, hanno causato un disagio psicologico che ancora oggi non è da sottovalutare. Molto del nostro benessere si basa su una dose di certezza nel futuro; perdere questa visione lascia disorientati. Non per niente in letteratura stiamo assistendo a una nuova epoca d’oro della fantascienza».
Si cerca di superare la realtà?
«Si cerca di battere l’incertezza. I giovani scrittori si dedicano all’ucronia perché non riescono a prevedere il domani. Per quanto mi riguarda, ho sempre contato molto sulla stabilità, sulla solidità del presente, per accedere all’immaginazione. Per la prima volta da quando ho esordito non ho ancora cominciato un nuovo romanzo».
È distratta?
«Sono sovrastata. Non riesco a staccare gli occhi da quello che mi succede attorno e mi risulta difficilissimo astrarre una visione utile».
La preoccupa?
«È un caos paralizzante, che non sta generando alcuna risposta positiva, nessuna reazione. In teoria dovrebbe essere un tempo di invenzioni, di fervore, di rivolta. In pratica, culturalmente parlando, son tutti fermi, incantati, ipnotizzati da una realtà che non fa che confondere. La destabilizzazione è un potentissimo mezzo di controllo. Quando le persone si trovano in uno stato di incertezza tendono a proteggere sé stesse e a rinunciare alla coesione sociale. I nuclei diventano singoli e si disperdono».
È molto inquietante…
«Vero? Non sorprende che rimanga poco tempo da dedicare al sogno americano».
Ha a che vedere con il divario generazionale?
«Può darsi. Dalla pandemia il gap si è allargato molto più di quanto è accaduto tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Il fatto curioso è che l’attuale vecchia generazione non riesce ad ammettere i propri limiti. Il sessismo e il razzismo sono presenti, tangibili, corrosivi, eppure si fa come se non esistessero, come se fossero il retaggio di una generazione ancora precedente».
Siamo a un punto di rottura?
«Lo abbiamo superato. Questo è l’aspetto positivo. Le nuove generazioni sono così distanti dalle vecchie che ormai non le considerano nemmeno più. Il mondo è già cambiato, occorre solo prenderne atto».
Culturalmente, cambierà tutto?
«È strano, non riesco a capirlo. Questo è un momento che dovrebbe produrre una risposta culturale devastante a livello di attivismo, e invece abbiamo i film di Wes Anderson. Il trionfo dell’estetica, del disimpegno, dell’attesa».
Anche questa è una reazione…
«Probabilmente. Non sono sicurissima che sia la reazione giusta».
Vede qualcosa di eccitante nel futuro dell’America?
«C’è un sacco di cibo molto buono, da quel punto di vista abbiamo fatto dei grandi passi avanti. Scherzi a parte, la mia speranza è che rifiorisca un sogno comune, che non può essere lo stesso abusato sogno americano della letteratura del secolo scorso, ma che sia globale. Probabilmente qualcosa che io non riuscirei a capire, ma che mi dà speranza».
È bello chiudere con un po’ di speranza…
«La prossima volta, speriamo di cominciare da lì». —