La Stampa, 7 giugno 2024
Raffaella Leone ricorda nonno Sergio
Quarant’anni fa, nel 1984, si verificò a Torino un fatto curioso: Sergio Leone, il regista italiano più popolare nel mondo, si stabilì a Torino per tre giorni, invitato dal Movie Club per una retrospettiva a lui dedicata e per un incontro con un folto gruppo di studenti dell’Università. Il regista di Per un pugno di dollari non volle andare subito nell’albergo, ma chiese agli organizzatori di accompagnarlo in giro per la città a visitare indirizzi che si era appuntato su un foglietto tutto stropicciato. Nessuno ebbe il coraggio di chiedergli il motivo di quel giro, nonostante gli indirizzi fossero piuttosto periferici (il Lingotto, Madonna di Campagna, il Lungodora). Fu lo stesso Leone al termine del giro a svelare il motivo di tale richiesta: «Negli appunti di mio padre Vincenzo Leone – spiegò – questi erano i luoghi nei quali ha girato nella vostra città parecchi film prima dello scoppio della prima guerra mondiale. Mio padre, che aveva come nome d’arte Roberto Roberti, era all’epoca un regista molto conosciuto. Ecco perché quando per il mio primo western mi hanno chiesto come si usava allora di firmarmi con uno pseudonimo inglese ho scelto Bob Robertson: a tutti gli effetti, io sono il figlio di Roberto Roberti».
Una scelta che fa trasparire la grande ammirazione che Leone aveva per questo padre prima molto famoso e poi totalmente dimenticato. Lo conferma anche la figlia Raffaella, neo cavaliere del lavoro e alla guida del Leone Film Group, una delle più importanti produzioni a livello internazionale (non a caso, secondo la classifica della prestigiosa rivista Variety, è tra le cinquanta donne del cinema più importanti nel mondo). «Io non ho mai conosciuto mio nonno (nato nel 1879, sarebbe morto nel 1959) – spiega – e anche mio padre lo ha visto molto poco, perché nacque nel 1929 quando il nonno aveva già cinquant’anni e la nonna, l’attrice Bice Waleran, 43, e poi per la guerra si separarono e furono lontani. Però Sergio era molto legato al suo ricordo: ci diceva che il nonno era un fiero antifascista, e non fu spedito al confino grazie all’amicizia con Gabriele D’Annunzio, che era stato suo compagno di scuola. In compenso fu emarginato dall’industria del cinema, e mio padre aggiungeva con un sorriso amaro: “Proprio come a un certo punto è accaduto anche a me, per altri motivi”. Ho l’idea che più che un rapporto con il padre fosse un rapporto con un nonno, data la lontananza e la grande differenza d’età».
La vicenda di Roberto Roberti in effetti riserva grandi sorprese, la principale tra tutte è che, oltre a essere il regista preferito di Francesca Bertini (la diva più famosa e importante del cinema muto italiano), nella sua filmografia risulta anche un protowestern, La vampira indiana, quasi un presagio per la carriera del figlio. Il suo nome rimanda all’epoca in cui Torino era diventata la capitale della nuova arte, gli Anni Dieci del secolo scorso. E non è un caso se la società Le Serre di Grugliasco (uno dei pochi posti dove sopravvivono vestigia di quell’epoca eroica del nostro cinema) e il comune di Grugliasco, insieme all’Università di Torino, abbiano coinvolto i migliori studiosi italiani per due giorni di convegno proprio su Roberto Roberti, con la proiezione delle pellicole conservate e fornite dalla Cineteca Nazionale, dalla Cineteca di Bruxelles e dal Museo del cinema. Il convegno darà origine a un libro curato da Silvio Alovisio e da Caterina Taricano, il primo di una serie che con cadenza annuale Le Serre vogliono dedicare alla grande stagione del muto torinese.
E in effetti, a parte le illustre parentele, Roberto Roberti è un regista che riserva ottime sorprese. Nel cinema muto sapeva mettersi al servizio degli attori, lui che veniva dal teatro, dove era stato il regista di Emma Gramatica e di Eleonora Duse. E dopo essere stato a lungo emarginato, sia per le sue idee sia per la crisi del cinema italiano, ha diretto anche interessanti film sonori. Come ricorda Raffaella Leone, che dopo i successi internazionali della serie I leoni di Sicilia è in trepida attesa per il suo prossimo film che uscirà il 31 ottobre, Fino alla fine di Gabriele Muccino: «Ho sempre un gran piacere nel raccontare quel grand’uomo di mio padre. Che cosa ho imparato da lui? Innanzitutto che bisogna leggere i contratti, visto quello che gli hanno fatto patire con C’era una volta in America. E poi che bisogna essere orgogliosi delle proprie origini. Tempo fa fu intervistato sulle partecipazioni d’attore che aveva fatto da giovane per campare e lui disse che il ruolo che riteneva più importante non era quello del giovane seminarista in Ladri di biciclette di VittorioDe Sica, che pure vinse l’Oscar nel 1950, ma il soldato americano in Il folle di Marechiaro, l’ultimo film di mio nonno, un film che andò malissimo e che nessuno ha visto…». —