La Stampa, 7 giugno 2024
Carlo Piano, suo padre Renzo e il mare
Carlo Piano, 59 anni, genovese, qual è il primo ricordo che ha di suo padre Renzo?«Da piccolissimo mi portava nel Parco di Villa Duchessa di Galliera, a Genova Voltri, a cercare le orme degli animali. E con la fantasia un cane diventava un licantropo o un tirannosauro. Uno dei pochi ricordi legati alla terra ferma, perché molti altri sono di barca e di mare».Perché il figlio di un architetto fa il giornalista?«Per non fare l’architetto e perché mi è sempre piaciuto scrivere. In realtà ci sono delle analogie. Io uso la parola per costruire, lui vetro e acciaio. E sono due mestieri sociali, attenti agli altri e alla città. Mentre mio papà lavorava al Beaubourg a Parigi in cantiere gironzolava Italo Calvino col suo taccuino e poco dopo scrisse Le città invisibili, in cui quella di Armilla tutta fatta di tubi sembra ispirata al museo progettato da mio padre. Lo scrittore aveva anche immaginato un autolavaggio per la struttura, lo aveva disegnato e lasciato come appunto a papà. Allo stesso modo Mario Vargas Llosa raccontò il suo rifacimento di Potsdamer Platz a Berlino sottolineando la società multietnica che aveva ricostruito quello che era stato il centro dell’intolleranza».Si è mai pentito di non aver fatto l’architetto?«No e poi è inutile pentirsi. Inoltre collaborando con lui in qualche modo partecipo all’architettura. Come mio fratello Matteo che si occupa di design industriale e mia sorella Lia che lavora nella fondazione di mio padre e ne cura le pubblicazioni».C’è qualche aspetto di suo padre poco noto?«Ha sempre in tasca un metro e scommette con tutti sulla misura degli oggetti. Misurare per lui è anche capire, infatti si definisce geometra in senso greco, cioè misuratore della terra. Poi ha una grande passione per la tromba, fin da ragazzo si era messo in testa di diventare trombettista ma non è mai stato molto dotato. Gino Paoli, con cui erano lupetti a Pegli, lo convinse a desistere. Per anni però l’ha tenuto come piano B. Più degli scrittori lui invidia i musicisti, perché se la parola è leggera la musica lo è ancora di più. Per questo ha progettato luoghi come l’Auditorium di Roma e del Lingotto di Torino».Qual è la sua architettura preferita di suo padre?«Il Beaubourg perché è stata una grande avventura. Su centinaia di progettisti vinsero lui e Richard Rogers trentenni. Consegnarono la proposta senza pensare di farcela e quando telefonarono a mio padre per comunicargli la vittoria capì che gli chiedevano se era laureato e mandò il certificato via fax. Il Beaubourg rispecchiava un cambiamento sociale, dentro c’erano la rivoluzione sessantottina e l’idea che la cultura dovesse essere trasparente».E poi?«Amo il suo studio a Punta nave fuori Genova, un posto magnifico davanti al mare. L’architettura preferita da mio padre, nonostante musei e auditorium, invece restano i castelli di sabbia. Lui ha iniziato così in spiaggia a Pegli: sceglieva un posto lontano dal mare ma abbastanza vicino per irrigare il fossato».Cosa le ha insegnato?«Ad amare il mare e ad imparare a guardarlo. Se cresci col mare davanti hai sempre la curiosità di prendere e andare oltre l’orizzonte, che non vuol dire non tornare in porto».Come mai lei ha lavorato per giornali di destra?«All’inizio collaboravo con Il Secolo XIX di Genova, poi venni assunto a Milano da Vittorio Feltri a L’Indipendente durante Tangentopoli, una grande esperienza tanto che lo seguii a Il Giornale prima alle Cronache italiane, poi alla redazione di Genova, ancora a Milano come capo della Cultura e capocronista. Alla fine stanco degli orari mi sono dimesso».E ha scritto Atlantide con suo padre...«Un libro nato da un sentimento di vendetta. Da bambino papà mi “deportava” in barca e per una volta l’ho voluto portare io. Un modo per averlo a disposizione, perché in mare non si scappa facilmente, e interrogarlo come in confessionale. Così ci siamo riavvicinati umanamente con un padre che non è stato sempre presente per via di tutto quel che ha fatto. E ho capito la sua volontà di ricercare una bellezza etica in tutti i posti dove ha costruito. E la sua consapevolezza che la bellezza è irraggiungibile. Atlantide in fondo è la città perfetta, ma utopica».La barca a vela è il vostro collante?«Sì, mi ha sempre portato. Sono nato a Genova, ma stavamo a Lambrate a Milano perché lui si era laureato al vicino Politecnico, poi siamo tornati in Liguria anche per via di mia mamma Magda. Da piccolo abbiamo vissuto anche a Londra, dove mi picchiavo con i bambini inglesi, e a Parigi, dove succedeva pure con i coetanei francesi. Il liceo per fortuna l’ho fatto a Genova. Le estati tutte in barca: il mese di agosto con i miei fratelli e mia mamma. In una notte eravamo in Corsica. Papà aveva la fissazione di toccare il meno possibile i porti e di restare in rada. D’estate dunque non vedevo la tv e non mangiavo la pizza. E da grande neppure una ragazza col binocolo».Il vostro posto preferito in barca?«Saint-Florent in Corsica. Camogli e Porto Venere in Liguria».Che navigatore è Renzo Piano?«D’altura, sempre in mare e noi figli dei mozzi non pagati senza diritto di mugugno. Credo che anche nell’aspirazione della sua architettura ci siano sempre il mare, il senso di sospensione, la leggerezza. Già mio nonno Carlo accompagnava mio padre al porto per ammirare la magia delle navi che galleggiano e dei carghi che si muovono».Insieme avete scritto pure Alla ricerca di Atlantide. Viaggio nell’architettura per ragazzi sognatori.«Durante la pandemia abbiamo voluto viaggiare con la mente e adattare ai ragazzi il nostro percorso alla ricerca della bellezza. Tra tutti i giochi abbiamo pensato che le costruzioni continuano ad esistere, perché c’è qualcosa dentro di noi che ci spinge a creare».Chi sono gli amici di suo padre?«Molti musicisti: Paoli, De André, Berio, Pollini, Abbado, Accardo...».Chissà quante avventure...«L’imperiese Luciano Berio spesso ci seguiva con la sua barca e a un certo punto partiva una regata all’ultimo fiato e con sprezzo del pericolo».Anche Grillo era suo amico?«Sì, poi con il suo impegno politico i rapporti si sono raffreddati. Una volta si andava spesso a cena, prima di sentirsi “l’elevato” Grillo era un comico strepitoso».E Antonio Ricci?«Sì, mio padre gli sta dando una mano nell’impresa di sistemare Villa della Pergola ad Alassio. Per i 70 anni Ricci gli portò il Gabibbo da cui uscì una velina».Fu molto vicino a Gianni Agnelli?«All’epoca della ristrutturazione del Lingotto l’Avvocato telefonava mentre eravamo in barca, chiedeva dove fossimo e ci raggiungeva in elicottero atterrando in mare con le zattere, parlava con papà mezz’ora e ripartiva. Due italiani conosciuti in tutto il mondo. E anche un torinese e un genovese con molte affinità».Senatori a vita...«Quando glielo hanno proposto era tormentato perché di politica si è sempre occupato poco. Poi ha pensato che poteva essere un modo di prendersi cura delle città, così il suo stipendio va nel sostegno a giovani architetti per il rammendo delle periferie».Lei ha scritto anche Il cantiere di Berto sul Ponte Morandi.«L’ho raccontato con gli occhi di uno dei mille che ci hanno lavorato. Una storia di verità dei 420 giorni di cantiere tra cordoglio per il lutto e orgoglio di risollevarsi. Mio nonno Carlo era di Certosa, il quartiere sotto al ponte».Genova ora è turbata da un terremoto giudiziario, che ne pensa?«Non è l’immagine della Liguria che vorrei, al di là delle responsabilità personali. Genova ha dietro tutto il nord Italia, da Milano a Torino, e davanti il mare, il porto e le crociere. Con le infrastrutture giuste il suo futuro è luminoso». —