la Repubblica, 7 giugno 2024
Intervista a Sofia Coppola
È emozionante sentirsi parte della Storia», dice Sofia Coppola guardandosi intorno, gli occhi pieni di meraviglia, nella biblioteca al secondo piano di Villa Aurelia, la residenza che ospita gli artisti e gli studiosi sostenuti dall’American Academy in Rome, istituzione culturale che quest’anno festeggia 130 anni. Indossa un top nero di seta e una gonna ricamata in tulle di Chanel – marchio di cui è global ambassador –, è pronta per partecipare al Gala durante il quale, mercoledì sera, è stata insignita della McKim Medal, il premio che l’American Academy in Rome conferisce ogni anno a personalità che hanno contribuito al dialogo tra arte, architettura, cinema e moda, come Cecilia Alemani e Cy Twombly – giusto per citarne un paio. «È stata una sorpresa gradita perché non è legato a un film, ma al mio modo di connettermi con le altre discipline», continua la regista come per sottolineare che anche a lei – che nella sua carriera ha vinto Oscar, Golden Globe e la Palma d’Oro – fa piacere ricevere riconoscimenti, «mi danno coraggio».
A consegnarglielo è stata una cara amica, l’artista Rachel Feinstein, facendola commuovere: «I film di Sofia parlano della battaglia tra avvenenza e bellezza, noia e meditazione, superficie e profondità. Il nostro mondo ha bisogno della sua visione». Quello sguardo particolare sul mondo, Coppola ha iniziato a costruirlo fin da bambina: «Ho trascorso la mia infanzia sui set dei film di mio padre (Francis Ford, ndr ),passavo le ore tra i costumi di scena, scattavo fotografie – che poi ancora oggi è il mio modo di prendere appunti. A 15 anni, per incoraggiare la mia passione per la moda, i miei genitori mi hanno mandato a fare uno stage con Karl Lagerfeld a Parigi e stargli accanto mentre creava le collezioni Chanel è stato di grande ispirazione. Ho capito quanto i dettagli fossero vitali per raccontare una storia». La moda quindi è diventata uno strumento di narrazione fondamentale, «creare gli abiti e i look dei miei personaggi mi appassiona molto, per Priscilla abbiamo fatto uno studio incredibile. Non capisco chi pensa che guardare alla superficialità delle cose renda superficiali». La moda, d’altronde,l’ha aiutata a esplorare un tema che per lei è centrale: l’adolescenza. DaIl giardino delle vergini suicide (1999) aMarie Antoinette (2006) passando perBling Ring (2013), c’è sempre almeno una ragazza – e i suoi look – alle prese con le prove della crescita. «È un periodo della vita per cui provo molto rispetto perché è forse la fase in cui si è più connessi con i propri sentimenti: il primo amore, la tristezza… è tutto esasperato, perché è necessario sperimentare». E ora che le sue figlie sono teenager, è cambiato qualcosa nel suo sguardo?
«Osservarle è un po’ come prendere appunti, a volte divertente, solo che poi devo anche fare la madre che insegna la disciplina, quindi passare dall’altra parte della barricata.
D’altronde ci sono tante altre fasi della vita interessanti da raccontare e la maternità è una di queste». Il film più personale? «Forse Lost in Translation perché ero stata in Giappone per il brand di moda che avevo creato, Milk Fed, e poi mi è venuta l’idea. Però devo dire che in tutti c’è qualcosa di personale». On the Rocks (2020)? «È uscito durante la pandemia, purtroppo è un po’ rimasto nell’ombra ma per me è importante perché racconto la crisi di identità che si prova a diventare madre e a occuparsi dei figli: ci vuole un po’ per capirsi, è necessario passare attraverso a molte domande». Saranno state molte anche quelle che sua figlia Romy (17 anni, avuta con il marito, il musicista Thomas Mars) le avrà posto prima del recente lancio del suo Ep di due canzoni e del suo debutto nel cinema in una piccola parte dell’ultimo film del nonno, Megalopolis. «A lei piace scrivere i testi delle sue canzoni e io voglio incoraggiarla. Per questo le ho consigliato di non leggere cosa scrivono di lei», ammette sorridendo. «Le persone creative sono spesso sensibili, ma in questi anni ho capito che, se credi in quello che fai, devi andare avanti per la tua strada, senza chiederti cosa starà pensando la gente». Non a caso l’attore Bill Murray (che ha lavorato con lei inLost in Translation e inOn the Rocks )l’ha soprannominata velvet hammer, martello di velluto. «In effetti penso che il mio pregio più grande sia anche il mio più grande difetto: la testardaggine. Quando lavoro a un progetto cerco di fare qualcosa che sia vero per me: solo se è davvero autentico il pubblico potrà rispecchiarcisi, magari riconoscersi».