il Giornale, 6 giugno 2024
Lafcadio Hearn nel cuore del Giappone
«E il Giappone ha perso il suo figlio adottivo. Giorno dopo giorno, a migliaia va perdendo i suoi giovani. I cadaveri giacciono impilati l’uno sull’altro, frenano il corso dei fiumi, finiscono sul fondo del mare con occhi sbarrati (...). Adesso è morto anche il forestiero, l’immigrato che tanto amava il Giappone. Forse l’unico europeo che abbia davvero amato e conosciuto quella terra (...) con l’amore di chi prende parte alla vita interiore del paese». Siamo nell’autunno del 1904 e così il grande autore austriaco Hugo von Hofmannsthal scrive in morte del giornalista, saggista e narratore Lafcadio Hearn, nipponico d’adozione. Gli altri morti dei quali parla sono i soldati giapponesi caduti nella guerra allora in corso contro la Russia per il dominio della Manciuria e della Corea: vittime come sempre mandate al macello, e spesso anonime. Lui, invece, Lafcadio, nato nel 1850 sull’isola greca di Leucade (da cui il nome) dal chirurgo irlandese Charles Hearn, di stanza nelle Isole Ionie occupate dagli inglesi, e da Rosa Antonia Kassimati, in Giappone non era un anonimo turista, ma una celebrità, e con un altro nome, Yakumo, e un altro cognome, Koizumi, assunto dalla moglie Setsu, dalla quale ebbe quattro figli. Fu un infarto a portarselo via e a togliergli dalla vista ciò che non aveva mai voluto vedere: la volgare, ottusa, criminale stupidità degli uomini.
Il Giappone di cui scrive Lafcadio/Yakumo, il quale vi era giunto nel 1890 dopo gli anni difficili trascorsi negli Stati Uniti, è infatti un mondo edenico, in cui persino la violenza dei samurai, i mostri della mitologia e gli dèi maligni assumono, in racconti e riscritture ispirati alla cultura locale, la dimensione di antagonisti infine soggiogati dalle forze della Bellezza, della Tradizione, della Filosofia, della Spiritualità. Così medita: «Ritornando ora alla vita occidentale, mi sentirei come Thomas-the-Rhymer che rivisita un mondo di bruttezza e di dolori dopo sette anni di dimora nel paese delle fate». Thomas-the-Rhymer era un gentiluomo, profeta e poeta scozzese del XIII secolo che, nel testo quattrocentesco che porta il suo nome, si dice fu rapito dalla Regina delle Fate. E profetiche come il profetico Thomas sono le parole di Hearn quando afferma, nel breve saggio In Osaka, del 1896: «Non è vero che l’antico Giappone rapidamente scompaia. Non potrà scomparire che tra almeno un altro centinaio d’anni; forse mai scomparirà completamente». Infatti, l’internazionalizzazione, vale a dire la parziale occidentalizzazione della città ebbe una clamorosa accelerata nella seconda metà del secolo scorso, con l’Expo del ’70, prima Esposizione mondiale in un Paese asiatico, e con il summit dei Paesi dell’Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation) del ’95.
Ma andiamo avanti, cioè indietro. In Osaka è uno degli scritti che uscirono a Boston, riuniti in un volume, nel 1897, editi da Houghton Mifflin, con il poetico titolo Gleanings in Buddha-Fields, «Spigolature nei campi di Buddha». La raccolta fu proposta in italiano da Laterza nel 1908 e poi nell’83, quindi da O barra O due anni fa e ora da Iduna (pagg. 300, euro 25), nella vecchia traduzione di Giulio De Georgio che conferisce un certo allure d’antan, posandosi sulla prosa di Hearn come un sottile manto nevoso. Il primo scritto, Un dio vivente, è un saggio sullo shintoismo alla fine del quale si ricorda Hamaguchi Gohei, o Goryo (1820-85), un ricco possidente terriero che salvò migliaia di persone da uno tsunami attirandole, dalla costa dove si trovavano, fino ai suoi campi che lui aveva deliberatamente incendiato. «Così essi lo dichiararono dio, e d’allora in poi lo chiamarono Hamaguchi Daimyoijn», cioè un santo shintoista, e gli dedicarono un tempio. In Note d’un viaggio a Kyoto, a margine delle fantasmagoriche feste del popolo per l’undicesimo centenario della fondazione della città, ecco un’altra santa, sebbene laica. Hatakeyama Yuko, donna di umili origini, il 20 maggio 1891, a 26 anni, si uccise per la vergogna. Non sua, ma del suo Paese. L’autore non lo racconta, limitandosi a descrivere ciò che gli sta più a cuore, la commozione della gente sulla tomba della povera Yuko, ma era accaduto che nove giorni prima della sua morte il principe ereditario russo Nicola, il futuro zar Nicola II, a Otsu era scampato a un attentato compiuto da un ufficiale di pattuglia, Tsuda Sanzo, poi condannato all’ergastolo. Yuko si sacrificò per scusarsi con i russi... Le facce nell’arte giapponese tratta dell’estetica nipponica e sono interessanti i paralleli con il classicismo occidentale: «L’altissima arte, l’arte di aspirazione (sia giapponese o dell’antica Grecia), è (...) essenzialmente religiosa per il suo metodo».
Tornando a In Osaka, qui Hearn passa dal profano al sacro. Da un lato loda l’efficienza e lo stile quasi... americano degli uomini d’affari e del sistema bancario, dall’altro non nasconde quanto del lavoro siano vittime (anche in senso stretto, pagando con la vita) gli «apprendisti», i deichi. Nonni o bisnonni, aggiungiamo noi, degli odierni caduti sul fronte dell’iperproduttività nipponica che ha generato il fenomeno del karoshi, la morte da superlavoro. Ma poi va comprensibilmente in estasi visitando il Shitennoji, il complesso dei templi buddhisti voluto da Umayado (vissuto fra VI e VII secolo), figlio dell’imperatore Yomei e detto «il Costantino del buddhismo giapponese». Infine elogia l’eleganza, pur minimalista, delle case, lanciando una frecciata fino all’altra parte del mondo, «perché – scrive – il Giappone eccelle su tutte le nazioni nell’ottenere la massima bellezza col minimo costo; mentre il più industrialmente avanzato di tutti i popoli occidentali – il pratico americano – è solamente riuscito ad ottenere la minima bellezza col massimo costo!».
Ci sono poi due saggi in cui l’esteta e l’ammiratore delle tradizioni, quasi si toglie il kimono per indossare la veste del monaco. In Allusioni buddhiste nel canto popolare giapponese scrive: «Il buddhismo, come lo comprendo, non si offrì all’umanità come una credenza salvatrice per un solo mondo abitato, ma come la religione di innumerevoli centinaia di migliaia di miriadi di koti (un koti equivale a 10 milioni, ndr) di mondi. E la rivelazione scientifica moderna della evoluzione stellare mi sembrò allora, ed ancora mi sembra, come una prodigiosa conferma di certe teorie buddhiste della legge cosmica». E in Nirvana ci presenta un sunto di filosofia che del buddhismo, in accordo con il pensiero di Arthur Schopenhauer, il più orientale dei pensatori occidentali, sottolinea il valore morale, e addirittura tocca i temi del divino che s’incarna e di una metafisica che collima con la fisica subatomica. Proprio così: Yakumo san la sapeva lunga.