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 2024  giugno 07 Venerdì calendario

Ingres e Delacroix Oggetti & segreti


Sono morti a pochi anni di distanza l’uno dall’altro, ma una generazione li separava alla nascita: Jean-Auguste-Dominique Ingres era nato a Montauban nel 1780, Eugène Delacroix a Saint-Maurice nell’Île-de-France nel 1798. Entrambi morirono a Parigi, dopo aver interpretato nella pittura momenti a lungo intesi come contrapposti e oggi, invece, visti nelle loro osmosi di confine: neoclassicismo e romanticismo, in Ingres e Delacroix hanno già sviluppato i reciproci anticorpi che li rendono, a loro modo, più consanguinei di quanto si potrebbe pensare. Nessun tentativo di farli apparire troppo vicini (certo non simili), perché sarebbe un’impresa destinata alla derisione solo a provarci. Ma qualcosa li unisce, e la prova la si potrebbe trovare nel tertium datur, nell’intruso che si presenta e si trova perfettamente a suo agio in questa tenzone fra due che certo è difficile sostenere che si amassero, forse, anzi certamente, si rispettavano: non si cerca per ben sette volte d’impedire l’ingresso all’Accademia di uno di cui non hai rispetto, e qui intendo anche quel vago timore che qualcuno possa pensare che è più bravo di te. Questo fece Ingres con Delacroix. Il terzo incluso potrebbe essere Degas, che ammirava le prodigiose qualità di Ingres nel disegno, e quelle di Delacroix nel colore. Di più: Degas aveva più che cari gli antichi maestri, che i due antagonisti ammiravano con diversa intenzione. E se dobbiamo essere aderenti ai fatti, dovremmo dire che si ripropose qui la vecchia querelle che contrappose toscani e veneti nella disputa sul disegno e il colore fin dal tempo di Vasari. Sarebbe interessante sapere che cosa Ingres pensava di Roger de Piles, il grande scrittore francese vissuto per gran parte del Seicento scrivendo trattati sul colore (fu anche pittore) e facendo, per conto di Luigi XIV, la spia (in Germania e Austria: ma lo scoprirono e si fece cinque anni di galera durante i quali approfittò per scrivere alcuni suoi trattati). Ecco, De Piles ebbe il coraggio di scrivere che la pittura del “Raffaello di Francia”, Poussin, era fredda come il marmo, mentre quella di Rubens aveva dato la vita al colore rendendolo palpitante come carne. Ecco ancora una volta l’antica tenzone.
Questa volta i “nemici” di un tempo si ritrovano per una singolare iniziativa che non guarda anzitutto alle loro prove di pittori ma agli “oggetti d’artisti” attraverso i quali risalite ai legami con la loro opera, ma anche visti come testimoni, vere reliquie, del loro passaggio su questa terra e nel mondo dell’arte. È questo il tema di una mostra raffinata e singolare che si chiude lunedì prossimo a Parigi negli spazi del Museo Nazionale Eugène Delacroix, per riaprire il 12 luglio a Montauban al Museo Ingres-Bourdelle. Come scrive nella breve nota iniziale il Presidente del Louvre, Laurences des Cars, è è il tentativo di portare lo spettatore dentro i rispettivi atelier, di entrare nella loro “intimità creatrice” attraverso le loro fonti d’ispirazione, i loro metodi e le loro pratiche artistiche. Non dev’essere stata una impresa facile partendo spesso da oggetti secondari (una tabacchiera o un calamaio da miniatore), quasi un percorso di cultura materiale; ma altri più decisivi: il celebre violino di Ingres, che parla della sua passione per la musica, o le rispettive tavolozze che talvolta hanno la forza di quadri informali; ma anche souvenir di viaggio (quelli portati da Delacroix dal Marocco: ceramiche di Fez, calzature, sacche in tessuto, pugnali, tamburi e strumenti musicali come una specie di violino arabo; suggestioni che poi tornano nei suoi dipinti di orientali o in studi per babbucce o di figure femminili, o per un copricapo circasso). Talvolta si tratta di semplici oggetti decorativi, come il fermacarte in bronzo che raffigura un serpente raggomitolato, per non dire poi di quadri autografi o di altri artisti, disegni e mobili che erano conservati nei loro atelier.
Intanto, la nascita di questi due musei ha storie completamente diverse: Ingres ha fatto in modo che venisse creato il suo per conservare a futura memoria la fama del suo lavoro e di se stesso. Delacroix non progettò questo spazio e volle essere sepolto in un angolo particolare e riservato che domina il cimitero Père Lachaise, destinando con atto testamentario le cose che erano nello studio di rue de Furstemberg agli amici perché lo ricordassero attraverso un oggetto che lo aveva accompagnato nella vita. Un gesto molto affettivo, apparentemente, meno narcisista ma soltanto perché il pittore credeva più alla fama postuma della sua opera: «la gloria non è per me una parola vana. Il suono degli elogi inevoleva bria di una vera felicità».
Come viene notato anche nel catalogo della mostra, il museo dedicato al pittore romantico che Baudelaire metteva al di sopra di ogni altro moderno (in sottile polemica con i cultori del disegno), quando nel 1929 venne inaugurato rischiava di essere un “museo vuoto”, tant’è che la Società degli amici di Delacroix mentre si dava da fare per evitare la demolizione dell’antico atelier ammetteva anche: «Non troveremo mai un conservatore, perché nessuno si assumerà il ridicolo di essere nominato Conservatore, con la c maiuscola, di quattro mura vuote che non avrebbero come ornamento che le tazzine da caffè e il vaso da notte del maestro». E in effetti Delacroix mentre faceva testamento disponeva che tutto ciò che occupava l’atelier venisse messo all’asta, cosa accadde e fra doni e vendite le testimonianze andarono disperse. E si sente anche nella mostra, dove i “reperti” hanno spesso una sostanza diversa dell’“oggetto d’artista”: un dipinto che mostra un angolo dello studio o il ritratto d’artista nel suo atelier, un tempo attribuito a Géricault, oggi considerato, come l’altra tela, opera di anonimo; oppure un quadretto che ritrae Michelangelo nel suo studio, un nudo maschile d’accademia, questi di mano di Delacroix come il nudo femminile seduto, e accanto i cavalletti, le cassettiere per colori, cinque o sei tavolozze, una scultura in terracotta che lo ritrae, il ritratto della domestica, Jenny Le Guillau, che molto stimava; e fotografie, tra cui l’impressionante e mortuario dagherrotipo di Léon Riesener del 1842 dove mostra le mani sollevate sul petto e quasi rattrappite.
Naturalmente, l’esposizione cerca di stabilire delle analogie di percorso fra i due artisti, così troviamo anche fotografie che ritraggono Ingres: quella celebre di Disdéri, sbiadita e lontana come il fantasma di un antico maestro, o quella similpittorica di Gerothwohl & Tanner, dove, come viene notato in catalogo, l’artista dà prova di volersi imporre con una sorta di divisa d’ordinanza che offe una sorta di “immagine ufficiale”. Ingres si risposò in età avanzata con Delphine Ramel, di venticinque anni più giovane. Lui era un uomo non baciato dalla bellezza: Horace Vernet in una caricatura lo ritrae basso e goffo, con una spada e un elmo ai fianchi (mi ricorda, sia pure non nella corpulenza, il Renato Rascel che fare il corazziere pur piccoletto di statura) e sotto la scritta sarcastica: “Bel vestito, calzoni corti”, per dire piuttosto delle gambe, infatti era alto poco più di un metro e mezzo, massiccio. Lui ormai settantenne (ma visse fino a 87 anni), lei piacente senza particolare fascino femminile. Un matrimonio “di convenienza”? Nel senso che Ingres scelse di avere accanto una donna più giovane che avrebbe potuto gestire la sua fama dopo la propria morte. Non sarebbe la prima volta, del resto.
Nato a Montauban, Ingres volle che la municipalità creasse il museo a cui lasciò parecchio materiale. In vita ebbe un vero culto per le cose antiche, vasi greci e calchi di sculture classiche, che vediamo in mostra; in fatto di calchi vediamo anche quelli della mano di Ingres e del braccio di sua moglie; ma sono esposte poltrone, mobili, sculture, una scatola che conserva impronte di cammei e intagli, modelli ridotti di corazze ed elmi romani, e dipinti come La piccola bagnante dell’harem conservata al Louvre.
A seguire la nascita del Museo Ingres a Montauban fu un suo devoto discepolo, lontano cugino, Armand Cambon, che sarà anche il primo organizzatore dello spazio dedicato al grande maestro, con uno spirito volitivo che giustamente Florence Viguier-Dutheil definisce «feticismo esacerbato o visionario», questo perché molte cose conservate nel Museo non fanno parte della lista di quelle che Ingres avrebbe voluto che fossero esposte. Pascal Picard ha visto in questa impresa la volontà di Cambon di svelare «il laboratorio segreto del suo genio immaginario». E ci sta, ma considerando che Ingres si proteggeva dagli sguardi esterni e ben poche testimonianze esistono di come fosse il suo atelier.
Ingres nel 1851 già disse di essere felice al pensiero che sarà sempre presente nella sua città natale, dove peraltro non ha avuto occasione di vivere, ma dove sopravviverà eternamente grazie nel ricordo dei suoi concittadini (stava così dichiarando di voler procedere a una donazione). E nel testamento del 1854 enumera opere grafiche e oggetti, i dipinti sono quelli di maestri antichi o copie, poiché nomina la moglie Delphine erede universale dei suoi beni. E proprio con questo scenario si crea una sorta di incidente con il comune di Montauban quando la vedova di Ingres cerca di recuperare un certo numero di disegni che erano stati donati al Museo in cambio di quattro casse colme di oggetti e testimonianze di vita e di lavoro del marito. Il comune però, intuendo l’excamotage, rifiuta la donazione sostenendo che non c’è paragone nel valore dei disegni e di quegli oggetti, così che lo scambio è deludente. Delphine spedisce lo stesso le casse col treno senza attendere la risposta del consiglio municipale. Ne nasce anche un contenzioso legale, che finisce però in nulla perché nel frattempo anche Delphine passa a miglior vita.