il Giornale, 6 giugno 2024
Intervista a Jon Fosse
Jon Fosse è seduto al bar di un hotel extralusso di Milano. Dalla finestra si vede la Galleria Vittorio Emanuele II. Affabile e simpatico, lo scrittore norvegese si avventura in una chiacchierata con i giornalisti. Questo articolo ne è il resoconto. Si parla di Un bagliore, racconto lungo uscito per La nave di Teseo. Una storia intrigante, che ci interroga su cosa sia la morte. Cosa credete che vi accadrà quando il cuore smetterà di battere? Sono le undici di mattina. Alla sera Fosse sarà ospite d’onore al Teatro Piccolo nell’ambito della Milanesiana, la rassegna ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi. Fosse è un atipico Nobel per la letteratura, premio che ha vinto nel 2023: si concentra sulle opere, sulla scrittura e sul mistero della vita. Il suo punto di vista, anche se lui direbbe che tutte le interpretazioni sono valide, è legato al Cristianesimo (al cattolicesimo). Di politica non c’è traccia almeno nelle sue parole di oggi. L’unico accenno è la rivendicazione della lingua Nynorsk, minoritaria in Norvegia. Ma è più che altro una questione di tradizione e di profondità linguistica. Difficilissimo fare paragoni, anche perché ogni opera di Fosse segue una sua logica anche stilistica, ma almeno per Un bagliore possiamo azzardare il nome di Samuel Beckett, quello del romanzo Molloy, e comunque un altro premio Nobel. Un Beckett aperto alla speranza, se riuscite a immaginarlo.
Ma anche Dante Alighieri si direbbe una fonte primaria. O no, mr Fosse?
«Da giovane ho studiato la Divina Commedia. Ne possiedo diverse edizioni, anche in italiano e in inglese, e rimane uno dei testi che leggo più spesso, a cui ritorno più spesso. L’omaggio non è stato forse intenzionale, ma in effetti Un bagliore si apre con un uomo che si perde in un bosco dove fa strani incontri, seguendo un enigmatico bagliore... Quindi, se sono riuscito a richiamare il capolavoro di Dante, mi fa enorme piacere».
Che ruolo ha avuto la fede in questo libro?
«Tra le mie opere, c’è Settologia, centinaia di pagine in tre volumi. Il personaggio principale si interroga molto su questioni di fede: ho sentito la necessità di inserire, per la prima volta in un mio romanzo, alcune parti saggistiche. Però vorrei sottolineare una cosa: io scrivo. L’interpretazione tocca al lettore. E non è detto che la sua interpretazione sia meno calzante della eventuale mia. Non saprei qual è l’esatta chiave interpretativa di Un bagliore, ma sono contento del risultato. Per una volta ho scritto a penna, su un quaderno, poi sono passato a un computer. Il racconto è uscito senza troppe modifiche. È un testo religioso? Ditelo voi a me».
Restiamo sulla fede. Lei ha tradotto in norvegese “Il processo” di Kafka. Felix Weltsch ha detto che la posizione religiosa ha un ruolo fondamentale nei capolavori di Kafka. Cosa ne pensa?
«Kafka non voleva pubblicare né Il processo né Il castello e penso che il motivo fosse proprio legato alla religione. Capisco il suo timore di fare una caricatura dell’ebraismo. Traducendo Il processo, ho notato quanti riferimenti ci fossero alle sinagoghe, ai cappelli tradizionali, ai rabbini. Tutti questi dettagli rischiavano di sfociare in una caricatura».
Kafka è umoristico?
«Sono andato in profondità, appoggiandomi anche a traduzioni di altre lingue scandinave per aiutarmi. Sono stato colpito da quanto la sua scrittura sia in realtà divertente, molto divertente. Kafka raccontava che quando leggeva parti del romanzo, i suoi amici ridevano molto e lui stesso rideva. La componente ironica è fortissima».
Lei si rifiuta di interpretare i suoi testi, ma qual è il motivo?
«Quando scrivo, voglio allontanarmi da me stesso. Come il protagonista di Un bagliore, che si allontana dalla macchina alla fine di una strada chiusa e si avvia in un bosco. Una scelta rischiosa, ma allontanarsi da sé stesso lo aiuta a cogliere il mistero».
Scusi, lei non vuole esprimere sé stesso nelle sue opere?
«Molti scrittori scrivono per esprimersi. Io voglio allontanarmi da me stesso. Sono stanco di avere a che fare con... Jon Fosse. Voglio andarmene verso altri orizzonti, verso altri luoghi. Questa concezione era particolarmente forte quando ho iniziato a scrivere e avevo una visione forse più pessimista della vita. La letteratura, ogni libro, crea un altro universo».
Questo si riflette sullo stile?
«Sia i testi teatrali sia i romanzi sono universi a sé. Con regole proprie. Ogni testo richiede uno stile particolare. In Settologia ho abolito la punteggiatura, è una lunghissima frase, in un certo senso. Un bagliore è completamente diverso».
Ma allora qual è la sua peculiarità, cosa la rende così riconoscibile da assegnarle un Nobel?
«In tutto quello che scrivo, un elemento cruciale è il ritmo. Io non so esattamente che cosa sia questo ritmo, non saprei esattamente come definirlo, ma so che è fondamentale. In Settologia e in Un bagliore si possono identificare due ritmi ben diversi, ma entrambi molto precisi e costanti. Un altro aspetto è il desiderio di eliminare l’inessenziale, fatico addirittura a dare i nomi ai personaggi. Per avvicinarsi al mistero è necessario liberarsi di una serie di contingenze e di ostacoli quotidiani. Cerco l’essenza, che si manifesta in modi diversi. Questa tendenza, a mio parere, si ritrova in tutti i testi che ho scritto, nei racconti, nei testi teatrali, ma anche nelle raccolte di poesie».
Pianifica o non pianifica le sue opere?
«In realtà quando scrivo non ho già un piano in testa, semplicemente mi siedo e inizio. Parto da un incipit che mi soddisfa e mi spinge a proseguire, cercando sempre quel ritmo fondamentale a cui accennavo poco fa. Quando ho iniziato a scrivere Settologia, semplicemente non ho sentito il bisogno di mettere dei punti. La scrittura andava avanti come un flusso, come una sorta di fiume. Non avevo premeditato di scrivere un’opera senza punti. È semplicemente accaduto e ha sorpreso me per primo. E questo era anche molto legato alla forma che stava prendendo il romanzo e alla costruzione di quell’universo di cui parlavo prima che l’avrebbe caratterizzato».
Non c’è il rischio di capitare in luoghi oscuri, che era meglio non visitare?
«Come dicevo, parto da un inizio soddisfacente. Non so cosa ci sarà dopo, non voglio neanche saperlo, ma ho come l’impressione che tutto sia già stato scritto e che io debba semplicemente concretizzarlo, che ci sia già una parte della storia che non conosco e che forse non voglio neanche conoscere. Io devo solo metterla sulla carta».
Lei ha detto che scrivere è ascoltare. In “Un bagliore”, il protagonista ascolta il silenzio. Cosa si scrive quando si ascolta il silenzio?
«Ancora una volta non ho una risposta. È stato detto che per sentire, per ascoltare la voce di Dio è necessario il silenzio. Quindi questa è una possibile interpretazione. La voce di Dio si sente nel silenzio. In generale, il silenzio è anche una mia preferenza personale. Non ascolto la radio, non guardo la televisione, non vado al cinema e ascolto la musica soltanto quando vado ai concerti. Solitamente è musica classica, amo Bach».
Si aspettava il Nobel? Come l’ha cambiata?
«Negli anni ’90 e 2000, ho scritto moltissimo per il teatro e ci sono state innumerevoli rappresentazioni dei miei testi, soprattutto in Germania e in Francia, ma anche in Italia. Viaggiavo quasi in continuazione. Ero una sorta di stella del teatro, finché a un certo punto ho deciso di smettere e tornare alla prosa. Quindi diciamo che ero già abituato a ricevere attenzione e a una certa risonanza. Nulla però poteva preparami alla dimensione che tutto ha acquisito con la vittoria del premio Nobel. In questo periodo è stato molto difficile scrivere qualcosa di mio, scrivere qualcosa per me. Fortunatamente non avevo nulla in programma, non avevo progetti in vista».
Lei vive in una dimora che il Re di Norvegia le ha assegnato per meriti letterari. Vivere accanto al Re aiuta o soffoca l’ispirazione?
«Forse è un po’ più un ostacolo alla creatività. Ma in realtà non ho scritto moltissimo in questa casa, anche se in effetti è nato lì Un bagliore. Per Settologia mi ero invece trasferito in un piccolo appartamento alla periferia di Vienna. Certo, ammetto che è strano avere il Re come vicino di casa».