Corriere della Sera, 6 giugno 2024
Intervista a Simone Viola
«Nel primissimo, lui neanche c’è. Avrò avuto tre anni, sono al Bioparco di Roma insieme ai miei genitori. Di fronte al recinto delle caprette tibetane, che hanno quella sorta di barba folta e lunga che parte dal mento, mi avvicino per guardarle meglio, spalanco gli occhi e dico: “Nonno!”. Se parliamo dei primi ricordi insieme a lui, siamo nella casa di Velletri ed è l’ora della colazione, che lui amava fare con caffellatte, fette biscottate e marmellata fatta in casa. Visto che da bambino mangiavo con grande difficoltà, per invogliarmi a farlo costruiva grandi storie a proposito di quello che c’era sulla tavola. “Vedi, questa marmellata ha una grande storia, è stata prodotta da uomini che hanno combattuto delle battaglie, arrivano fin dalla Groenlandia per assaggiarla...”».
L’ultimo?
«Natale 2021, siamo nella sua casa nel centro di Roma. Alti discorsi di politica insieme a momenti di serenità, addirittura di cazzeggio. Lui al pianoforte: da casa non usciva ormai da parecchio tempo, dall’inizio della pandemia; ma il pianoforte l’ha suonato fino all’ultimo».
Di quelle che si chiamano «cose da raccontare ai nipoti», in novantotto anni di vita Eugenio Scalfari ne ha fatte parecchie. Simone Viola, anni ventitré, è il suo unico nipote. Figlio di Donata, giornalista del Tg5, e di Ettore Viola, ex grafico di Repubblica e figlio di Sandro, che era stato tra i giornalisti che avevano inaugurato il giornale nel 1976, ha raccolto in un libro («100 volte Scalfari») cento testimonianze celebri sulla figura del nonno, nato un secolo fa e scomparso nel luglio del 2022.
Vocazione da giornalista anche lei?
«Sogno di fare il procuratore sportivo o comunque di lavorare nel mondo del calcio».
Che a nonno Scalfari piaceva poco.
«Più che non piacergli, non gli interessava. Timido tifoso della Roma, era convinto che Silvio Piola avesse giocato con i giallorossi; una volta gli ho spiegato che in realtà era una bandiera della Lazio».
Austero nel privato come in pubblico?
«Io lo chiamo l’umorismo scalfariano. Gli piaceva tantissimo scherzare ma quando diventava lui la vittima del cazzeggio non sempre la prendeva benissimo».
Un esempio?
«L’imitazione che ne faceva Maurizio Crozza, che a noi in famiglia faceva sbellicare dalle risate. Gli facevamo vedere questi video sul telefono. Lui osservava, accennava giusto un mezzo sorriso, non commentava. Sicuramente gli piaceva la resa del numero comico ma se dovessi dire se era contento o meno, ecco, propenderei più per la seconda. Tra l’altro, quell’imitazione di Crozza rischiò di farci fare una figuraccia con Papa Francesco».
Come mai?
«Nel 2015 nonno è stato invitato in Vaticano dal Papa con tutta la famiglia. Arriviamo a Santa Marta e in questa specie di spazio piccolissimo, una quindicina di metri quadri, nell’attesa che arrivi Francesco ci sediamo su delle sedie già disposte a cerchio. Crozza in quel periodo imitava i dialoghi tra nonno e Bergoglio che girava con un frigorifero sulle spalle. Appena entra il Papa nella stanza, io e mia zia Enrica ci guardiamo, si capisce che entrambi stiamo pensando allo sketch di Crozza. Temendo di non riuscire a trattenerci, non ci siamo più guardati negli occhi durante tutta la durata dell’incontro per non rischiare di ridere in faccia al Santo Padre».
È l’unica volta in cui è stato testimone diretto dell’amicizia tra suo nonno e Papa Francesco?
«Diciamo che ce n’era stata un’altra, qualche tempo prima. Festività di Natale, squilla il telefono nella casa di campagna di Velletri, che ha un apparecchio in tutte le stanze, tutti collegati a un centralino comune, come se fosse la redazione di un giornale. Rispondo io e la voce dall’altro capo del telefono dice “sono Papa Francesco, vorrei parlare con Eugenio...”».
Direttamente lui, senza farsi annunciare dalla segreteria?
«Direttamente lui, come gliela sto raccontando. Un secondo dopo inizio a urlare “Nonno, c’è il Papa al telefono”».
Scalfari è stato un nonno ingombrante?
«Per me era mio nonno. Una volta, per un incontro organizzato dalla scuola insieme a mia mamma, venne in classe. Facevo la quinta elementare, confesso che la cosa non mi divertiva, la vivevo come una seccatura. Ciascuno di noi aveva una domanda da rivolgergli, un lavoro che avevamo fatto con le maestre. Ricordo che io, dandogli del lei, gli chiesi come mai avesse scelto Repubblica come nome del giornale».
Com’era Scalfari alle prese con una classe di bambini?
«Anche in quell’occasione non resistette alla tentazione di elevare il discorso, di andare il più in alto possibile. Di fronte a una classe di bambini di quinta elementare, iniziò a fare una riflessione sul concetto di “Io”. Zia Enrica, che era venuta con la macchina fotografica, gli disse a un certo punto di cambiare spartito, non si poteva parlare tutta la mattinata di “Io” di fronte a un uditorio di bambini di dieci anni».
Amò e stette contemporaneamente con due donne, sua nonna Simonetta e Serena Rossetti, sposata quando rimase vedovo.
«A questo proposito, ho raccolto una testimonianza molto divertente di Christian De Sica. Che un giorno, accompagnato da Mimma Golino, andò a trovare nonno Eugenio nella sua casa di Velletri. Non sapendo assolutamente che a casa Scalfari si vivesse da sempre una condizione non troppo dissimile, De Sica iniziò a raccontare del padre Vittorio, della sua doppia vita, delle due mogli, le due famiglie... Immagino che nonna Simonetta, presente all’incontro, non gradisse. Mimma Golino gli dava calci perché smettesse ma De Sica nulla, andò avanti nel racconto. In macchina, sulla strada del ritorno, gli spiegò della gaffe. Credo che nonno fosse tutto sommato divertito dalla situazione...».
Lo Scalfari amante della musica?
«Molto legato alla sua epoca. Luca Barbarossa, figlio di Annamaria Rossi, che aveva lavorato a Repubblica, racconta di come una sera si ritrovarono a casa di nonno a via Nomentana. Iniziarono a cantare le canzoni dei cantautori, accompagnati da una chitarra. Pezzo dopo pezzo, nonno riuscì a cambiare la scaletta. Gli piaceva Francesco De Gregori ma era decisamente più a suo agio con Domenico Modugno».
Abile.
«Mai come nella circostanza che mi è stata raccontata da Adriano De Concini, direttore generale del gruppo Espresso. Repubblica all’inizio soffriva tantissimo, rischiava la chiusura. Poi arrivò il sequestro di Aldo Moro e la situazione cambiò. Una delle lettere di Moro dal covo delle Brigate rosse era indirizzata al giornale. Per proteggere lo scoop, nelle prime copie destinate alla Questura nonno mise in pagina un’altra notizia, poi tolta per fare spazio alla lettera di Moro».
L’ha mai spinta verso il giornalismo?
«No. Ciascuno ha le sue passioni, il giornalismo era la sua».
Era un nonno curioso della tecnologia in mano alla generazione del nipote?
«La tecnologia lo incuriosiva, questo senz’altro. Il giornale digitale letto sul tablet per lui era “il giornale dei bottoni”. Ma quando gli facevi vedere un video sui social, e poi un secondo e magari un terzo, dopo un po’ si capiva che non gli interessava. E tornava al suo mondo, fatto di carta».