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 2024  giugno 06 Giovedì calendario

Intervista a Daniel Mendelsohn

Nell’introduzione a Estasi e Terrore (Einaudi), Daniel Mendelsohn scrive che nella sua carriera esiste un «piacevole paradosso: fuori dagli Stati Uniti i miei lettori non conoscono la parte più copiosa dei miei scritti, ovvero la gran quantità di saggi, articoli di critica culturale e recensioni che costituiscono il pilastro della mia vita di scrittore». Ha deciso quindi di dare alle stampe una preziosa raccolta di saggi, con traduzione di Norman Gobetti, divisa in tre parti: “Miti di ieri”, “Miti in Technicolor” e “Miti d’oggi”. La prima, spiega Mendelsohn, «include una serie di saggi dedicati a testi antichi e alla vita dei loro autori in cui faccio frequenti connessioni fra le opere del passato il mondo del presente». La seconda analizza serie televisive e film con riferimenti ad archetipi classici, a volte naturali, come Troy rispetto all’ Iliade, e altre inaspettati, come Edipo a proposito di Titanic e i Persiani dell’11 Settembre. La terza è la sezione più personale: insieme all’analisi dell’odierna sovrabbondanza di memoir, Mendelsohn propone riflessioni su autori che lo hanno formato come Kostantinos Kavafis, e lo struggente racconto del viaggio in Lituania all’epoca degli Scomparsi, nel quale la sua esperienza si fonde con quella di Stendhal a Vilnius durante il passaggio dell’esercito napoleonico. Intellettuale raffinatissimo ed eclettico, Mendelsohn non ha bisogno di fare alcuno sfoggio della propria cultura, proprio perché è estremamente vasta: sceglie spesso l’ironia e si interroga costantemente sul ruolo odierno del critico.
«Ho iniziato a scrivere nel 1989», racconta mentre sta preparandosi per venire in Italia, «all’epoca non esisteva Internet e l’autopubblicazione era estremamente limitata. Non c’erano neanche i blog e tutto quello che ha generato il Far West culturale nel quale viviamo. Ogni recensione veniva stampata e il fact checking era rigorosissimo: un saggio veniva letto da almeno 30 persone. Oggi soltanto alcune pubblicazioni come il New Yorker o la New York Review of Books continuano a mantenere questo standard di serietà e siamo invasi da critiche, o presunte tali, di persone improvvisate, senza alcuna preparazione accademica. La parola chiave di questa nuova tendenza è self/ auto.
Quanto ha affermato va di pari passo con l’esplosione dei memoir: si può dire che tutto inizia da quello che Tom Wolfe ha definito “The Me Decade”?
«È stata un’intuizione notevole che ha posto le basi per un fenomeno successivo. A questo riguardo io penso che – almeno in America – l’affermazione del soggettivismo con tutte le relative degenerazioni nasce col tramonto delle ideologie alla fine della Guerra fredda e con la secolarizzazione della società. Non è venuta però a mancare la necessità del racconto, e di punti di riferimento che ognuno ha tentato di crearsi personalmente».
Lei ha lamentato la carenza culturale dei critici improvvisati ma elogia Pauline Kael, che non aveva retroterra accademico e si distingueva per un approccio viscerale.
«Parliamo di una fuoriclasse ma anche di un unicum, che era sempre da leggere, anche quando non si condividevano le sue idee: era in grado di lanciare crociate per un film o un regista che amava, come Brian De Palma o Sam Peckinpah. Il mio approccio nasce dove lei conclude. Mi sforzo di far subentrare l’intelletto all’istinto».
Perché usa il termine “miti”?
«Ho sempre pensato che la narrativa sia un processo di creazione di miti e nel mio caso specifico questo processo è collegato con i classici».
È mai successo che un artista abbia recepito le sue critiche cambiando il modo di esprimersi?
«Non arrivo a dirlo, ma sono rimasto molto colpito da quanto è avvenuto con Tom Stoppard: la mia stroncatura dell’ Invenzione dell’amore, generò uno scambio di lettere violentissime, alle quale fece seguito, anni dopo, un suo bellissimo messaggio nel quale recepiva alcune mie osservazioni e si complimentava per uno dei miei libri. Sono ancora commosso da quell’episodio e posso dire che è nata una grande amicizia».
Ci sono state recensioni che hanno cambiato il suo lavoro?
«Non consapevolmente, ma le critiche sono molto più importanti dei complimenti. In occasione della pubblicazione del mio primo libro Bob Gottlieb mi invitò a pranzo per dirmi: “ti do un consiglio da ricordare tutta la vita: c’èsolo una cosa peggiore di una stroncatura stupida, un elogio stupido”. Quando ricevo critiche severe mi sforzo di capire cosa ci sia di vero, perché mi aspetto da una stroncatura la stessa dedizione che cerco di avere sia quando parlo di Euripide che di Mad Men».
Ritiene che una recensione abbia ancora effetto sul successo di un’opera?
«L’esplosione della critica non tradizionale, sui social, ha finito per diluire la forza e quindi l’autorevolezza delle recensioni, ed è sempre più sottile il confine tra critica e promozione.
Rimango sconcertato quando alcuni editori mi invitano a un cocktail con l’autore di un libro che devo recensire: è un modo per sporcare le acque, una forma subdola di corruzione».
A proposito dell’odierna sovrabbondanza dei memoir, lei cita come ideali l’essere «dispiaciuti da noi stessi» di cui parla Calvino e «l’urgenza di redenzione di Sant’Agostino»: è d’accordo con Freud che sosteneva che i memoir sono inevitabilmente mendaci?
«Sì, anche quando pensiamo di dire l’assoluta verità selezioniamo quello che vogliamo omettere e includere: il nostro inconscio ha una sua agenda».
A questo riguardo lei parla anche della difficoltà a separare la realtà dalla finzione.
«È una delle grandi questioni degli ultimi decenni, che ha avuto un’escalation con gli ultimi ritrovati tecnologici: pensi alle potenzialità terrificanti dell’intelligenza artificiale. Ma sul rapporto tra arte e realtà si interrogava Platone 400 anni prima di Cristo».