Avvenire, 6 giugno 2024
Oro, diamanti e debiti. La parabola del Ghana
Grandi riserve di oro, diamanti e bauxite, principale componente dell’alluminio. Ma anche petrolio, legname e sterminate piantagioni di cacao, che ne fanno tuttora il secondo produttore a livello mondiale. Il Ghana – primo Paese sub-sahariano a diventare indipendente nel 1957 – poteva contare su queste e molte altre risorse naturali quando ancora un decennio fa veniva considerato un raro caso di successo tra le economie africane. Un Pil che cresceva a doppia cifra, esportazioni in aumento, una certa stabilità anche a livello politico ne facevano un modello di governance per il continente. Gli ingredienti per puntare a uno sviluppo diffuso e al miglioramento dei servizi di base, dalla scuola alla sanità, c’erano tutti. Eppure, pochi anni dopo, siamo a raccontare un’altra storia, quella di un Paese che, con un’economia andata in default nel dicembre 2022, non riesce più a trovare una via d’uscita dalla sua crisi del debito.
Tra aumento globale dei tassi di interesse, impennata dell’inflazione (+54% nel 2023) innescata dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina e con una spesa pubblica fuori controllo, il governo di Accra si è ritrovato nel giro di 15 anni con 30 miliardi di dollari di debito esterno, il 40% del quale in mano a creditori privati internazionali come BlackRock e Amundi, e altri 34 miliardi di debito interno. Debiti che le autorità locali stanno ora provando a ristrutturare insieme al Fondo monetario internazionale anche per riacquisire credibilità sui mercati internazionali e poter ripartire, ma la strada si è mostrata finora abbastanza tortuosa. Anzi, quello del Ghana è un esempio perfetto di quanta fatica faccia il Common framework, l’iniziativa adottata dal G20 insieme al Club di Parigi per fornire soluzioni strutturali ai Paesi a basso reddito con livelli di indebitamento non sostenibili.
Dopo il default, arrivato per l’impossibilità di ripagare il debito, per il Ghana è stato predisposto un piano di salvataggio da 3 miliardi di dollari da parte del Fmi, in sostanza un nuovo prestito scaglionato e condizionato a una serie di riforme macroeconomiche per risanare i conti pubblici e a una ristrutturazione del debito esistente e deciso grazie al sì dei creditori. Tra le condizioni poste, peraltro, una abbastanza nuova: quella di ripianare prima il debito interno – contratto da banche locali, fondi pensione e compagnie assicurative – e solo dopo quello esterno, per provare a ridare fiato all’economia locale. Nel frattempo sono iniziati i faticosi negoziati con i creditori privati internazionali, detentori di circa 13 miliardi di dollari di bond ghanesi, e con i creditori bilaterali. A gennaio, un’intesa è stata raggiunta con questi ultimi per un ammontare di 5,4 miliardi (tra cui la Cina con 1,9 miliardi), un passaggio sottolineato dalla firma di un memorandum nei giorni scorsi e che ha diffuso ottimismo.
Ad aprile, però, c’era stata una doccia fredda non da poco: per il Fmi la bozza di accordo con i creditori privati non è sufficiente per ridurre i debiti del Ghana ad un livello sostenibile. Le autorità ghanesi avevano proposto tra l’altro ai creditori privati un taglio di un terzo del valore nominale degli interessi già maturati o, in alternativa, l’emissione di bond in scadenza nel 2043 senza “haircut” e con cedola dell’1,50%. Senza un accordo con i creditori privati e senza il via libera del board del Fmi, per il Ghana resta per ora bloccata la seconda tranche del prestito da 3 miliardi dello stesso Fmi, una tranche da 360 milioni di dollari che si aggiungerebbe alla prima da 900 milioni ricevuta a gennaio.
Parallelamente al ripianamento dei debiti, il governo di Accra guidato dal presidente Nana Akufo-Addo ha dovuto mettere in campo misure designate ad aumentare le entrate fiscali e a rivitalizzare l’economia, misure che hanno però pesato non poco sulla vita di decine di migliaia di ghanesi che già faticavano ad arrivare a fine mese. L’aumento dei prezzi ha finito con l’erodere il potere d’acquisto, mentre le aziende fronteggiano costi più alti e una domanda ridotta. Un rapporto della Banca mondiale stima che altri 850mila ghanesi siano finiti in povertà con l’inflazione a doppia cifra, mentre il Pil, in calo dell’1,7% lo scorso anno, non andrà oltre il +3% quest’anno. Negli ultimi due anni si sono così moltiplicate le proteste anti-governative e la tensione è destinata ad aumentare in vista delle elezioni di dicembre, quando l’ex presidente John Mahama sfiderà l’attuale vicepresidente Mahamadu Bawumia.
Paradossale, tra gli altri aspetti, che il Ghana, che produce 170mila barili di greggio al giorno, sia costretto a importare ogni anno miliardi di dollari in carburante. E non c’è in vista alcun programma – la costruzione di raffinerie, per esempio – per ribaltare questa prospettiva. È così che il Ghana, ancora un quinquennio fa definito «la stella lucente dell’economia africana» dalla Banca mondiale, si ritrova al bivio più complicato. La trappola del debito non consente oggi grandi investimenti, mentre anche un settore come l’agricoltura, che rappresenta il 21% del Pil e provvede al 90% dei bisogni alimentari del Paese, non ha goduto dell’attenzione necessaria per un aumento di produzione e di valore aggiunto. L’attesa di decisioni prese a livello internazionale è tutto ciò che rimane di un tempo in cui si era arrivati a poter immaginare un futuro diverso