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 2024  giugno 05 Mercoledì calendario

I peggiori anni della nostra vita - 9

Il 16 marzo 1978, poco dopo le nove del mattino, ero alla Cuesp, la libreria della facoltà di scienze politiche della Statale di Milano, in via Conservatorio. “Hanno rapito Moro!”, esclamò il ragazzo che stava alla cassa. Me lo ricordo come fosse ora. I capelli ricci e rossicci, la barba, gli occhi chiari.

   La Cuesp era un luogo fortemente politicizzato, fortino della sinistra estrema. Lì si vendevano i libri di testo nuovi e usati, ma anche i giornali di area: Lotta Continua, il manifesto, il Quotidiano dei lavoratori. C’erano, alle pareti, immagini che non lasciavano dubbi. L’immancabile Che, ad esempio. E anche sui tavoli volantini che non lasciavano dubbi.

   In quell’ambiente Aldo Moro era odiato. Il presidente della Dc. Il connubio tra governo e Chiesa. Il politichese delle convergenze parallele. Perfino la corruzione: in quei giorni Moro era accusato di essere Antelope Cobbler, nome in codice di un importante politico italiano che avrebbe ricevuto tangenti per l’acquisto di aerei miltari prodotti dalla Lockheed. “Antelope Cobbler? Semplicissimo, è Aldo Moro, presidente della Dc”, era il titolo della pagina 3 del quotidiano La Repubblica quel 16 marzo 1978.

   Moro era odiato.

   Ma non si avvertiva esultanza, alla Cuesp, quella mattina. Anzi calò uno spettrale silenzio, interrotto solo dalla voce della radio, sulla quale tutti erano chinati in ascolto. C’era stupore, intanto: perché nessuno avrebbe mai detto che le Brigate Rosse sarebbero state capaci di arrivare a tanto. Prendere l’uomo più potente d’Italia, portarlo via dopo avere ammazzato tutta la sua scorta.

   Ma c’era anche preoccupazione. Che cosa succederà ora? Uscii dall’università una mezz’ora dopo e vidi che lì a fianco, in corso Monforte, la prefettura di Milano era già stata circondata dalla polizia in assetto antisommossa. Arrivai in San Babila, presi la metropolitana, scesi a Gorla dove avevo parcheggiato, salii in auto e mi avviai verso casa. Pochi minuti dopo fui fermato dai carabinieri. Erano già scattate le perquisizioni a raffica. Si sarebbero ripetute per settimane. Non c’era giorno in cui non ti fermassero e ti controllassero tutto, borsa pantaloni bagagliaio. E vivevo a secicento chilometri da Roma. E avevo una Fiat 127 blu, neanche una macchina da compagno.

   Il Paese era nel panico. E non è vero che il timore principale era quello di un colpo di Stato. Al golpe di destra non credeva ormai più nessuno. Il sentimento di tutti era appunto lo stupore per “la geometrica potenza” dispiegata in via Fani. La paura era che le Brigate Rosse potessero vincere. Nessuno le immaginava così forti, così imprendibili. Quella stessa sera del 16 marzo la ricordo bene, ero con gli amici in una birreria e il tema era: vinceranno loro?

   Eppure fu proprio quel giorno che le Brigate Rosse cominciarono a perdere. Più precisamente, a rimanere sole. Poche ore dopo il rapimento, in tutte le piazze d’Italia si mescolarono le bandiere rosse dei comunisti con quelle bianche dello scudo crociato. Pci e Dc da quel giorno furono insieme non solo al governo, ma anche nella lotta al terrorismo.

   Mario Ferrandi detto Coniglio era un militante di Prima Linea. Ha raccontato che la mattina del 16 marzo 1978 era a Milano e stava partecipando a una manifestazione a sostegno dei lavoratori dell’Unidal, finiti in cassa integrazione. A un certo punto videro l’edizione straordinaria de La Notte con il titolone “MORO RAPITO”. Esultarono, al primo momento. “Poi decidemmo di andare a brindare alla mensa della Statale. Ma mentre versavamo lo spumante nei bicchieri di plastica capimmo che la nostra allegria era finta. Era inquietudine. Perché niente sarebbe stato più come prima. La politica sarebbe cambiata per sempre”.

   Nessuno, davanti ai cadaveri degli uomini della scorta e poi a quello dello stesso Moro, fatto trovare nel bagagliaio di una R4 in mezzo alle sedi della Dc e del Pci, nessuno dicevo ebbe più il coraggio o meglio la sfrontatezza di sostenere che le Brigate Rosse erano un’invenzione. L’evidenza si imponeva. Ma poi...

   Ma poi è tornato il vecchio vizio, quello di ritenere che la violenza possa essere sempre e soltanto fascista o comunque del sistema; che la sinistra goda di una immacolata concezione e che quindi sia stata esentata dal peccato originale; che il delitto Moro vada inserito a pieno titolo fra i cosiddetti misteri d’Italia.

   E certo che di misteri ce ne sono stati molti, nella storia del dopoguerra. E certo che pure nella storia di Moro si sguazza spesso nel letamaio di imbrogli e depitaggi.

   E sarà anche vero, o comunque verosimile, che sul sequestro del presidente della Dc qualcuno ci abbia marciato, speculato, ricavato qualche vantaggio. Qualcuno che avrà anche mosso le sue sporche pedine per infiltrare, condizionare, nascondere. Ma sul fatto che il rapimento di Moro sia stato ideato e compiuto dalle Brigate Rosse, santo cielo, come si può ancora dubitare? Dei rapitori di Moro non solo conosciamo volti nomi e cognomi. Non solo abbiamo sentito le loro confessioni. Abbiamo anche visto, perdio, che si sono fatti tutti i loro venti o trenta anni di galera. Come si può pensare che siano agenti dei servizi? Se lo fossero, li avrebbero fatti scappare. Oppure accoppati. Ma davvero si può pensare che qualcuno si faccia mezza vita in cella per rendere un “servizio ai servizi”?

   E allora ecco la tesi di riserva. L’hanno rapito loro ma non sapevano di essere manovrati. Da chi? Ma ovvio: dagli americani. Dalla Cia.

   Nel 2010 intervistai, per La Stampa, Richard Gardner, che era stato ambasciatore degli Usa in Italia sotto la presidenza del democratico Jimmy Carter, dal 1977 al 1981. Quando gli chiesi se fosse vero che l’ordine di far fuori Moro fosse partito da Washington, si mise a piangere. “Ma come si può pensare una cosa del genere? Una follia! Moro era un nostro grande amico e un nostro grande alleato”.  Gli obiettai: ma Moro aveva portato i comunisti al governo. Mi rispose così:  “Io sono un anticomunista viscerale. Ma anche Moro lo era. Moro non voleva i comunisti nel governo. Lui era molto furbo. Li prese nella maggioranza, senza dare loro ministeri, per farli corresponsabili di scelte impopolari. L’obiettivo era quello di logorarli. E ci riuscì: nel 1979 il Pci cominciò il suo calo elettorale e il suo declino”. Sincero o no che fosse Gardner, la parabola del Pci fu effettivamente quella.

   E non solo. Con il millenovecentosettantotto finiva anche il Sessantotto. Solo in Italia era durato così a lungo.

   Non si videro più cortei né manifestazioni, almeno non del tipo che ci eravamo abituati a vedere. Non più moltov e non più cariche della Celere. I movimenti extraparlamentari scomparvero dalle piazze e dalle scuole.

   Anche i giornali cambiavano. Lentamente, ma cambiavano. E pensare che solo un anno prima, quando Montanelli era stato ferito dalle Brigate Rosse, il suo nome era stato fatto sparire dal titolo del Corriere.

   Cambiava, soprattutto, la vita quotidiana. Non si vedeva più che qualche eskimo, sempre più raro; mentre erano del tutto scomparsi i pantaloni a zampa d’elefante che i sanbabilini indossavano sopra le Barrow’s, scarpe di gran moda che tutti pensavano fossero inglesi e invece le facevano a San Vittore Olona. Ancora si usavano invece i Ray-Ban, ma non più quelli orribili a goccia. Si tornava a uscire la sera. A Milano andavamo da Scoffone, una cantina che allora era dalle parti di via Torino, dietro la Biblioteca Ambrosiana; oppure a prendere il frullato da Viel.

   Avevamo vent’anni e un gran voglia di, finalmente, vivere.

(9- continua)

 

 

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