il Giornale, 5 giugno 2024
La danza della morte nelle poesie «ritrovate» di Giorgio Bassani
Per l’avanguardia degli anni Sessanta, Giorgio Bassani e Carlo Cassola erano le «Liale del ’63». Troppo tradizionali. Troppo mediocri nel raccontare la vita di provincia. Troppo lineari nel fare appello alla memoria.
Oggi possiamo tranquillamente affermare che fu un clamoroso errore critico dettato da una ubriacatura ideologica e dal desiderio di abbattere una generazione di «vecchi» per ottenere più potere accademico ed editoriale (Bassani in realtà era nato nel 1916 a Bologna ed era cresciuto a Ferrara).
A bocce ferme, le opere di Bassani si rivelano enormi perché in gioco ci sono sempre la vita e la morte. Fu proprio un avanguardista, però illuminato, Giorgio Manganelli, ad accorgersi che i conti non tornavano. Ma quale Liala! In un articolo capitale, scrisse che il punto di vista di Bassani ha sempre «la sottile eleganza della morte». Splendida intuizione che spiega proprio la profondità del ricorso alla memoria. I fascisti, là fuori, coltivano la morte senza memoria, atteggiamento che conduce alla demenza e all’omicidio.
In quanto alla rappresentazione della provincia, degli argini, del Po, è sempre illuminata da una luce (o oscurata da una nebbia) che richiama la pittura metafisica di Giorgio de Chirico, come del resto alcuni personaggi-manichino-simbolici dei racconti e delle prose varie. E certo non sarà un caso che la pittura metafisica fosse nata proprio nel periodo ferrarese del pittore.
All’opera di Bassani, oggi si aggiunge un titolo: Pavana (a cura di Angela Siciliano, Officina Libraria, pagg. 80, euro 12). È una raccolta di poesie, databili tra il 1939 e il 1942, rimasta inedita e ritrovata nel Fondo Bassani della Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna.
Il dattiloscritto è dedicato ad Angelo (Nino) Arcangeli, e già questo dettaglio spalanca la porta su un mondo eccezionale. Angelo è il fratello di Francesco Arcangeli, grandissimo critico d’arte, poeta e allievo, come Bassani, di Roberto Longhi. Siamo al vertice della cultura italiana del Novecento, tenendo conto che, nelle aule bolognesi dove Longhi faceva lezione, passarono anche Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini, giusto per fare due nomi (altri se ne potrebbero aggiungere).
Rimandiamo alla bella introduzione di Angela Siciliano la soluzione dei problemi filologici. Qui invece approfittiamo delle conclusioni della curatrice (di un’edizione per altro davvero curatissima in ogni suo aspetto).
Pavana rivela un duplice significato nella vita artistica di Bassani. La primavera del 1942 significa Stalingrado ed El Alamein. Il futuro incerto. La persecuzione razziale dell’ebreo Bassani. Lo scrittore si sente uscire dalla giovinezza, ora può contemplarla nelle poesie di Pavana, per poi riprendere il cammino. Il dattiloscritto è firmato con lo pseudonimo «Giacomo Marchi»: decisione obbligata per evitare problemi legati alle leggi antisemite. Ma anche volontà di proseguire un discorso iniziato con le prose di Una città di pianura, anch’esse firmate «Giacomo Marchi». E ancora: la Pavana è una composizione strumentale per pianoforte. Nell’omonima poesia, si direbbe l’accompagnamento di una danza funebre forse ispirata a Ravel. Bassani, tra l’altro, era un eccellente pianista. Potrebbe averla suonata o averla sentita suonare proprio da Angelo Arcangeli, che ne possedeva lo spartito, tuttora conservato alla Biblioteca dell’Archiginnasio.
Dal punto di vista stilistico, spicca la compresenza di un linguaggio ermetico e indeterminato, a sottolineare l’attesa, la solitudine, la lontananza; e di un linguaggio tecnico-specialistico, per radicare i testi nella realtà ferrarese. Quando Eugenio Montale recensirà le poesie di Bassani, metterà in luce proprio questo duplice aspetto. E qui chiudiamo un cerchio: quell’alternanza era ben nota a Montale, che l’aveva usata in Ossi di seppia e nelle Occasioni. E il poeta Eugenio Montale era ben noto a Giorgio Bassani...