il Giornale, 5 giugno 2024
Il belcanto made in Italy
Fate la prova del ristorante, anche se il cibo per una volta non c’entra (vivaddio) e comunque: entrate in una taverna tedesca, tendete l’orecchio, ed ecco, lo sfondo sonoro è monotòno anche se qualcuno magari sta litigando, anche se i crucchi sono accesi e birraioli, vi accorgerete, ossia, che le flessioni delle voci sono uniformi, che l’intensità e l’irruenza e il volume non cambiano le cose, che l’altezza si dice è sempre quella. Ora entrate in un ristorante italiano (non milanese perché troppo globalizzato, non meridionale perché troppo chiassoso) e ascoltate la differenza: la varietà di suoni e di accenti, soprattutto di modulazioni, è infinitamente maggiore e non si contano i chiaroscuri e la ricchezza si dice della prosodia, intesa come insieme di ritmica, intonazione, durata e accentazioni di una lingua parlata: in sostanza è quella cosa che per cui due italiani, quando parlano, sembra già che cantino, e che la nostra lingua sia già una melodia. Meglio ovviamente che l’articolazione sia foneticamente scolastica, meglio quindi non scendere troppo oltre i confini toscani, perché già il delizioso romanesco, per esempio, è troppo appiattito sulle cadenze del cinismo.
Lo avrete capito, anche se di musica non capite niente: questo genere di Made in Italy non ce lo porterà via nessuno, non entro un paio di secoli almeno: il belcanto o belcantismo italiano è imparagonabile non solo a quello tedesco, che assieme a quello italiano è il musicalmente più importante, ma neppure al francese o al russo; l’inglese neppure lo menzioniamo, che per deformazione culturale sembra sempre un musical anche se si sta ascoltando un’opera di Purcell del tardo Seicento. Conclusione sull’antagonista tedesco: anche chi predilige visceralmente l’opera di Richard Wagner (come lo scrivente) sa benissimo che il tessuto orchestrale wagneriano è denso e ricchissimo proprio perché è delegata alla parte musicale un’esposizione dei sentimenti e del carattere dei personaggi, diversamente dal belcanto all’italiana (quello dei Bellini, Rossini, Donizetti) che ha sempre richiesto voci atleticamente meno preparate ma più duttili, morbide, legate nel fraseggio, ariose come sono quelle dei «cantanti» secondo l’accezione popolare.
Dopodiché va definito che cosa intendiamo per belcanto, posto che ci riferiremo a modelli per nulla ortodossi o puristici: comprendiamo nella categoria, per capirci, anche Giuseppe Verdi e Giacomo Puccini. Il belcanto comunque è una tecnica che fa della voce uno strumento musicale a tutti gli effetti, capace dunque di passare dalle scale più gravi alle più acute e di astrarsi, fraseggiare, anche fungere da mero ornamento; il suo inventore fu un romano poi emigrato a Firenze, Giulio Caccini, che fondò una vera e propria scuola che pose le basi dell’arte e della scienza della tecnica vocale, degli esercizi, dei famosi solfeggi. In breve il cosiddetto recitativo all’italiana si sparse un po’ ovunque per almeno tre secoli (a partire dal tardo Cinquecento) con le sue pause, i legati, le scale, i vocalizzi, il flautato, il falsetto che si dipanano sino all’orrida (per noi oggi) generazione di castrati già dall’età prepuberale, capaci di timbri ed estensioni non immaginabili (tipo il famoso Farinelli). Anche la scuola napoletana, con Alessandro Scarlatti e Nicola Porpora, pose le basi del belcanto (figurarsi se non è belcanto Enrico Caruso), ma non va confusa con il similcanto napoletano moderno, d’estrazione araba (è arabo anche il mandolino, per chi non lo sapesse).
Ora torniamo sulla Terra. Luciano Pavarotti era un belcantista? Risposta: assolutamente sì, anzi, è stata una delle più belle voci tenorili di sempre, anche se fino a 19 anni faceva l’assicuratore porta a porta e non ha mai imparato bene a leggere la musica. È stata una figura chiave per il rinnovamento dell’immagine e del marketing del belcantista post-moderno, e da qui una domanda più delicata: Andrea Bocelli è un belcantista? Sì, ma è qualcosa di completamente diverso, il suo status è quello di «crossover singer» che ha fatto una scelta commerciale in parte popolare (pop) ma con un’impostazione lirica senza troppe regole, ergo non è paragonabile a chi nella vita fa solo classica (per la quale servono decenni di studio e una vita ascetica) ed è chiaro che sia molto criticato dai puristi, pur restando un esempio di Made in Italy piuttosto difficile da immaginare fuori dai nostri confini. Ergo, per farla brevissima, sinché la lingua rimane questa, e permangono scuole di canto serie, il Made in Italy del belcanto vivrà di rendita ancora a lungo, e, come per il turismo, possiamo sì maltrattarlo e talvolta non meritarcelo, ma la bellezza e la natura non si possono battere.