La Stampa, 5 giugno 2024
Chi è Colafigli
Ci risiamo. A Roma tutto è eterno, perfino la criminalità. Basti pensare ad una banda, quella della Magliana, che negli anni si è fatta leggenda e come tale sembra non finire mai: chi è morto ammazzato infatti è diventato un mito, chi si è pentito è considerato un eroe, chi invece è sopravvissuto alle vendette e agli anni di galera continua a comandare e a delinquere, come se il tempo non fosse mai passato o quantomeno fosse passato invano. Questo si può dire di molti degli epigoni della Banda della Magliana, che portano avanti i loro traffici sottotraccia, imboscati in qualche locale, dentro alle cucine di ristoranti usati come copertura o in certe cooperative sociali, come la bucolica «Spazi Immensi»: è qui che uno storico capo della Magliana è stato mandato dal tribunale durante le sue ore diurne di semilibertà, allo scopo di prepararsi dopo tanti anni di carcere al reinserimento in società; e invece quel vecchio pescecane della mala romana, complice la totale disponibilità della direttrice, ha trovato nella cooperativa agricola protezione continua e alibi perfetti per tutte quelle volte in cui invece di stare lì a curare l’orto, era impegnato altrove, a spostare chili di cocaina e hashish dalla Colombia e dalla Spagna, verso le piazze di spaccio della città. Lui è Marcello Colafigli, per tutti Marcellone, per gli amanti del genere Bufalo, per i suoi sodali Zio, figura apicale della Banda della Magliana e braccio destro e sinistro di uno dei suoi fondatori, Franco Giuseppucci, detto il Negro.
Bufalo appena uscito dal carcere, nel 2019, insieme ai vecchi amici aveva ritrovato la sua vita di prima, proprio lì dove l’aveva lasciata trent’anni fa; per recuperare il tempo perso, si era subito messo a capo di una holding criminale costituita da pregiudicati romani, da narcos albanesi e da finanziatori legati alla mafia foggiana, con il supporto di una nutrita rete di esponenti della camorra e della ‘ndrangheta, sui cui poter fare affidamento per far arrivare in sicurezza le partite di stupefacenti nei porti di Napoli e Gioia Tauro. Il Sud, lo Scuro, il Pischello, il Timido, il Mostro, il Biondo, solo per fare qualche soprannome. L’organizzazione di Colafigli si occupava prevalentemente di traffico internazionale di stupefacenti, ma all’occorrenza anche di ricettazione, di estorsioni, di rapine e di possesso illegale di armi. Per questi reati, la scorsa notte, i carabinieri del Comando Provinciale di Roma hanno arrestato ventotto persone (quattro delle quali risultate irreperibili) tra Roma, Viterbo, Frosinone, Napoli e Foggia a seguito di una complessa inchiesta condotta dai militari del Nucleo investigativo di Roma, coordinati dalla Dda della procura romana.
«Aho la frutta è già pronta?» si informava Marcello Colafigli, preoccupandosi che il carico di frutta dentro ai container, dove poi sarebbe stata occultata la droga proveniente dalla località di Turbo (a circa 300 km da Medellin), fosse già disponibile. Marcellone e il suo gruppo avevano organizzato il piano nei minimi dettagli. I finanziatori pugliesi, Pasquale Napolitano e Gaetano Saracino, avevano messo a disposizione 400 mila euro, metà dei quali destinati all’importazione di 400 chili di hashish, fatti arrivare a Roma dalla Spagna, nascosti nel doppiofondo di un autotreno e scaricati in una falegnameria romana, che faceva da base al gruppo. Gli altri 200 mila invece erano destinati all’acquisto di 30 chili di cocaina dalla Colombia, ma l’affare, quando sembrava ormai concluso, era saltato all’improvviso: qualcosa nella Capitale era andato storto, per quel misto di menefreghismo e cialtroneria che in questa città lambisce un po’ tutto, compresa la criminalità. Ma di questo si dirà meglio tra poco, prima occorre ricordare chi è Marcello Colafigli. L’epiteto di Marcellone, che gli era stato attribuito in virtù della sua straordinaria forza fisica, se l’era guadagnato un po’ sul campo, un po’ per una specie di incantesimo: secondo la narrazione epica di quegli anni, infatti, Bufalo avrebbe acquisito quella sua straordinaria potenza fisica alla nascita dal fratello gemello, morto subito dopo il parto, che gliel’avrebbe magicamente trasferita. Colafigli, orfano di madre e con un padre impiegato che si guadagnava da vivere onestamente, nutriva una vera e propria venerazione per il boss della primissima batteria della Magliana, Giuseppucci, a cui poi Bufalo si era legato e che lo aveva introdotto alla carriera criminale, diventandone l’ombra. Marcellone del resto era un capo affidabile, tanto che era tra i pochissimi insieme a Maurizio Abbatino, Claudio Sicilia e Massimo Carminati ad aver accesso all’arsenale di armi che la Banda condivideva con alcuni esponenti dell’eversione nera e che erano nascoste nel controsoffitto di uno scantinato del Ministero della Sanità. In quegli anni, Bufalo aveva sia partecipato direttamente che pianificato diversi omicidi, tra cui quello di Maurizio Proietti, detto il Pescetto, che Colafigli aveva atteso sotto casa per vendicare la morte del suo fraterno amico Giuseppucci, ucciso un po’ di tempo prima. Ad attendere Pescetto e suo fratello Mario nell’androne di un condominio di via Donna Olimpia, quella sera di marzo del 1981, era stata una scarica di proiettili, dalla quale era difficile ripararsi. E infatti Pescetto era morto. Sopraggiunta la polizia, Bufalo aveva reagito scappando e sparando contro gli agenti, fino al gesto più vigliacco: farsi scudo con un bambino. Arrestato dalla polizia, si era poi difeso nei processi con il solito metodo: fingersi pazzo, affermando per esempio di sentire le voci, soprattutto quella di un gatto che lo implorava di vendicare il Negro. I medici compiacenti avevano fatto il resto, diagnosticandogli ogni tipo di patologia psichiatrica, dalla schizofrenia paranoide alla personalità psicopatica, dalla depressione alla psicosi delirante allucinatoria; come ben sapevano gli specialisti messi a disposizione della Banda, con queste cartelle cliniche era difficile non finire dritti dritti in un ospedale psichiatrico giudiziario; da qui ad un certo punto Marcellone era pure evaso, ma giusto per il tempo necessario ad uccidere l’altro capo della Banda della Magliana, il leader della fazione dei testaccini, Renatino De Pedis. Colafigli l’aveva raggiunto insieme ad un complice in sella ad una moto, in via del Pellegrino, dietro Campo dei fiori, ma prima di sparargli, lo aveva picchiato, per aggiungere un ulteriore oltraggio alla sua morte.
Negli anni Bufalo era riuscito ad ottenere quattro sentenze di proscioglimento per infermità mentale e una per seminfermità, sebbene altrettante fossero invece quelle di segno opposto, in cui veniva giudicato sano e pienamente imputabile. Una prassi che a Roma è ancora molto in voga come dimostra la storia di un pezzo da novanta della criminalità come Michele Senese detto ‘O pazzo, che ha tracciato la strada a tutti gli altri e che tra l’altro Colafigli conosce molto bene dai tempi della comune carcerazione a Livorno.
Fatto sta, che anche per Bufalo ad un certo punto si erano aperte le porte del carcere, dove è stato recluso per molti anni, fino al 2019, quando da uomo quasi libero era tornato prontamente operativo, forte del prestigio criminale di un tempo, reso ancora più solido dal silenzio che aveva sempre mantenuto sulle vicende della Banda, in tutti questi lunghi anni di galera e di processi. Lo stesso Bufalo ne è consapevole, intercettato infatti mentre parla con un suo fiancheggiatore, tal Fabriani, che sosteneva per lusingarlo come lui fosse in grado di suscitare paura in tutti – «perché c’hai una storia, sei un personaggio» – gli risponde: «Paura no, rispetto». Sebbene Colafigli avesse ben chiaro che nei suoi confronti erano vere entrambe le cose: la paura e il rispetto. Eppure nonostante il suo prestigio criminale, l’importazione di quei 30 chili di coca dalla Colombia era saltata all’improvviso. I 200 mila euro ricevuti dai suoi finanziatori cerignolani, con i quali poi avrebbe diviso i profitti, erano finiti nelle mani imprudenti di un suo sottoposto, Salvatore Princigalli, a cui era stato affidato il compito di trasferire tutti quei soldi su diverse carte prepagate da spedire poi al fornitore sudamericano. Ma Princigalli a sua volta aveva delegato la pratica al cugino Mauro Fioravanti, titolare di un bar, il quale, pieno di debiti com’era, aveva pensato bene di appropriarsi di quel denaro. Princigalli, saputo quello che era successo, si sente male, perché capisce di essere un uomo morto come prova a spiegare all’incauto cugino, che invece non sembra capire affatto la gravità di quello che ha combinato: «Adesso vediamo, aggiustiamo, facciamo, parliamo?» – urla Princigalli all’altro – «Quello si presenta qui e ti dice se non mi dai i soldi ti sparo ad un piede, dopo un ’ora mi dai i soldi? e ti sparo all’altro piede… stai a parlare di gente che fa questo di mestiere e perciò ti massacra cioè dice: “aho, se proprio devo rischiare che non mi dai più i soldi... perché il limite io lo so, li conosco, fino a che sanno che gli dai i soldi ti danno uno schiaffo e una carota, ma quando sanno che i soldi li hanno persi… sei perso tu, hai capito? perché tanto... li hai persi e perciò... ti ammazzano». Del resto, quella è gente che si vanta «di indossare sempre il casco», che in gergo significa essere sempre pronti a sparare. Dal canto suo, Colafigli non può certo perdere la reputazione con i narcos albanesi e sudamericani, né con chi l’ha finanziato per quattro sprovveduti maldestri che non sanno stare al mondo: «Io 40 anni (di galera, ndr) me li sono fatti con la faccia mia, capito? Non è che un tizio del genere mi fa cadere la faccia...». La priorità intanto per il gruppo di Bufalo è recuperare in un modo o nell’altro quei 200 mila euro, per esempio con una rapina ai danni di un’altra batteria criminale, durante un’operazione di cambio valuta, ma le cose stavolta dovranno essere organizzate alla perfezione, perché quella «è gente come noi e può succedere di tutto». L’idea geniale è quella di fingersi uomini della Guardia di Finanza, inscenando un controllo per strada: «Uno va li: “Buonasera può favorire i documenti?”, anticipando qualsiasi loro azione, “non gli devi dare il tempo di pensare"», dice uno di loro, ma l’altro, tal Santini, replica, ragionando sul fatto che le vittime della rapina gli avrebbero potuto chiedere di identificarsi: «Magari ti fanno “chi è lei? Allora dopo gli diciamo: li mortacci tua, chi è lei chi?... dammi i soldi"».
Per preparare il colpo, viene ovviamente reperito anche tutto il materiale necessario al travisamento: pettorine, divise, distintivi, una paletta, un taser e ovviamente una pistola Beretta. A quel punto è tutto pronto, la banda può entrare in azione, ma vista la pericolosità della situazione, in cui due gruppi armati si sarebbero fronteggiati per strada in mezzo alle persone, il Nucleo investigativo dei carabinieri di via Selci interviene bloccando l’operazione e anche i sogni di gloria di Bufalo.
L’ordine di arresto viene notificato a Marcello Colafigli in carcere, dove era già rientrato per essersi fatto beccare dalla polizia mentre era ancora in regime di semilibertà in compagnia di altri pregiudicati, guarda caso ad Ostia, snodo nevralgico per la mala romana, dove comanda solo chi decide Michele Senese. Ma questa è un’altra storia. —