la Repubblica, 5 giugno 2024
La città a misura di 15 minuti
Ormai lo chiamano “il teorico della città dei 15 minuti” e in effetti Carlos Moreno, 65 anni, non sfugge alla definizione. Alla carriera accademica (è professore e direttore dell’ETI della Business School della Sorbona) alterna infatti un’intensa attività di consulenza. Tra i suoi interlocutori, organismi internazionali come Unesco e World Bank e varie amministrazioni europee e non solo, a partire proprio dalla sua città d’adozione: Parigi. Lo scopo è implementare il suo modello: una ricetta per le città del presente e del prossimo futuro che rovesciando il paradigma dell’estensione e della dispersione mira a creare comunità “dense”, dove ciò che serve – dalla salute all’educazione, dal lavoro al divertimento – possa idealmente essere raggiunto in 15 minuti.
Un’utopia? Forse, eppure molti sindaci lavorano sulle intuizioni di questo colombiano di Tunja, figlio di contadini inurbati, arrivato a Parigi come rifugiato politico negli anni ’70, che non ha dimenticato che per vivere bene (e affrontare le sfide del cambiamento climatico in un mondo dove è nelle città che si concentra la popolazione) bisogna condividere le opportunità. Dall’ateneo di Roma Tre, dove ha partecipato alla tavola rotonda sul progetto Roma a portata di mano dell’amministrazione capitolina, all’università di Torino, a Parma dove sarà nei prossimi giorni.
Come si applica la ricetta dei 15 minuti alle città storiche italiane?
C’è una lezione nel passato?
«Roma, Napoli, Torino, e tutte le altre grandi e medie città italiane sono traloro diversissime, ma sono tutte nate molto prima che l’Italia fosse una nazione; l’affermazione dello spirito nazionale è recente, risale solo al XIX secolo. In Italia avete l’eredità delle “città stato”, con politiche territoriali specifiche, un’economia locale. Penso alle città marinare come la Repubblica di Venezia, protese verso il commercio, o quelle della Pianura Padana legate all’agricoltura del contado. La lezione per il presente è nell’inventiva con cui ciascuna di esse si è confrontata con le sfide e le opportunità del territorio, e ha creato un ecosistema locale efficiente».
Che tipo di ecosistema?
«Ciascuna di queste realtà ha saputo scovare modi per approvvigionarsi di cibo e acqua, per realizzare vie di comunicazione, per prosperare. Ma attenzione, nel vostro passato non ci sono solo le signorie, i comuni, la Repubblica di Venezia: c’è anche lo status civitatis romano, il complesso di diritti e doveri che derivavano a ciascuno in virtù della sua qualità di cittadino. Questo è fondamentale, perché rivela come fin dall’antichità la città abbia avuto uno statuto e un ruolo politico».
Che cosa abbiamo perso nella dimensione contemporanea della metropoli e della megalopoli?
«Se partiamo dalla polis greca, nella sua stessa etimologia c’è l’idea di condividere una serie di regole comuni. Se pensiamo alle lingue latine abbiamo il francese ville che viene dal latino villa, un concetto che si riferiva alla presenza di un gruppo di una cinquantina di abitazioni ma soprattutto alla capacità di vivere insieme. Così da una parte abbiamo le regole della polis, dall’altra, ed è ancora più importante, la capacità di condividere risorse della villa: acqua, aree verdi, strade, infrastrutture, la
via romana che serve per connettere le persone e per scambiare i beni. Se facciamo un grande salto in avanti, all’Italia di oggi, vediamo una serie di problemi. Innanzitutto le disparità economiche e di opportunità tra nord e sud del Paese, poi anche le diseguaglianze nel tessuto di ciascuna città».
La sua idea di “città dei 15 minuti” si oppone alla “zonificazione” che per tutto il Ventesimo secolo e oltre ha portato le comunità urbane a espandersi in orizzontale, creando quartieri suburbani, periferie non collegate tra loro né al centro.
Come funziona il suo modello?
«Il modello “dei 15 minuti” è basato su ciò che io chiamo “mutualizzazione”: è applicabile con questo nome alle zone ad alta densità, ossia le città medio grandi e grandi, ma come modello del “territorio dei 30 minuti” è altrettanto valido per le città medio piccole e per le comunità rurali. Qual è il vettore che fa funzionare questo modello? In entrambi i casi, si tratta di lavorare per identificare i fattori che migliorano la qualità della vita in ciascuna di queste situazioni, indipendentemente dalla densità. Se abbiamo una grande città, Roma, Milano, Napoli, Bologna, o un piccolo territorio, la prima sfida è capire cosa può cambiare in meglio la qualità di vita. Si tratta sempre di tenere a mente alcuni marcatori: serve implementare i servizi a livello locale, serve ridurre l’impronta ecologica, dare impulso alla microeconomia di ogni area e all’occupazione. Nel caso delle comunità cittadine medio piccole e delle aree rurali, i bisogni di base non cambiano: si tratta sempre, partendo dal territorio, di educare, creare lavoro e servizi efficienti, prendersi cura della popolazione».
C’è qualcosa, al di là degli investimenti economici dall’alto, che innesca il cambiamento?
«Nelle città, laddove c’è un substrato identitario condiviso, generare processi di mutualizzazione è relativamente più facile. È necessario promuovere la decentralizzazione e la migliore distribuzione di risorse e servizi nell’area urbana. La prossimità non è una semplice questione di distanze ma di conoscenza, relazioni, scambi affettivi, interessi comuni. Nelle comunità rurali e disperse è necessario attivare o riattivare questo senso di prossimità ripristinando un’appartenenza comune, e ciò passa anche dalla capacità di generare dei network tra piccole realtà, paesi e cittadine, ossia l’equivalente, nelle metropoli, del connettere le zone tra di loro. Agire sul bene comune partendo dalla popolazione è il fattore di successo di ogni tipo di politica urbana».