Avvenire, 5 giugno 2024
Platone, con lui il sole non tramonta ad Occidente
Ralph Waldo Emerson era convinto che Platone fosse, in quanto tale, la filosofia, coincidesse insomma con essa. Alfred North Whitehead avrebbe poi aggiunto che tutta la storia del pensiero occidentale poteva anche essere letta come una lunga chiosa alla sua opera. Karl Popper infine, nel suo La società aperta e i suoi nemici (1945) avrebbe invece fatto del filosofo greco il campione (e il paradigma) di ogni totalitarismo, sistema politico e sociale che sempre si fonda, appunto, sul mito d’una comunità chiusa e perfetta. Per farci capire come e quanto in profondità il grande pensatore abbia continuato a condizionare la nostra contemporaneità, basterebbe ricordare un solo fatto: che persino un editore come Livio Garzanti si trovò a pubblicare nel 2006, con la sua vecchia casa editrice non più di sua proprietà, il più singolare dei suoi libri (perlopiù romanzi), intitolato appunto Amare Platone e lasciato inedito per più di 10 anni, per la paura di esporsi troppo: «Non volevo che un professorino qualunque mi sfottesse».
Arriva ora per Neri Pozza nella collana “La Quarta Prosa” diretta da Giorgio Agamben, il volume di Giorgio Pasquali Le Lettere di Platone, cui seguiranno, da qui a novembre, Lo spirito e la lettera. Sull’interpretazione delle scritture dello stesso Agamben, La discordanza. Scritti scelti di Reiner Schürmann e i Taccuini di Antonin Artaud.
Appena uscito, ma come nuova edizione in brossura, Un altro scrivere. Lettere 1904-1924 che raccoglie il carteggio tra Max Brod e Franz Kafka. La Quarta Prosa – si diceva – che, inaugurata nel 2005, prese il nome dal titolo d’un libro del 1930 di Osip Mandel’shtam, il quale aveva saputo coniugare una coraggiosa disposizione politica, del tutto estranea al servilismo degli scrittori sovietici coevi, con una grande libertà letteraria, nel segno d’una notevole densità espressiva e culturale, per una scrittura di apertissimi orizzonti.
Ma torniamo a Giorgio Pasquali, il cui profilo in apertura di volume ci viene restituito dallo stesso Agamben, che ce lo presenta da subito qual celebratissimo filologo «che, nei quattro volumi delle Pagine stravaganti, ci ha nondimeno lasciato alcuni fra gli esempi supremi della prosa letteraria del nostro Novecento». E che avrebbe fatto di quella «stravaganza», anche in virtù d’una grande insofferenza per ogni specialismo recluso nel suo stesso recinto, il punto di forza per comprendere tutto ciò che invece si trova al di fuori di quei rigidi steccati disciplinari, assumendo sempre come perno, però, le sue sontuose competenze. Ma torniamo a Le Lettere di Platone, che furono pubblicate nel 1938 (qui riproposte nella seconda edizione del 1967 a cura di Giovanni Pugliese Carratelli): due anni dopo Preistoria della poesia romana e quattro dopo Storia della tradizione e critica del testo, di fatto i tre libri cui «rimane affidata la fama di Pasquali come studioso di filologia classica», secondo quanto ebbe a scrivere Sebastiano Timpanaro nel 1981. Pasquali ne era già consapevole nel 1932, quando ne fece «argomento delle esercitazioni di seminario» coi suoi «scolari di Firenze e di Pisa», ma lo ribadisce nella Prefazione: la trattazione della VII (che affascinò «a Roma il ragazzo di liceo») e dell’VIII era e resterà sempre «il nucleo fondamentale» di ogni suo discorso sulle Lettere e, più in generale, sull’ultimo Platone, sino al punto da occupare infatti i quasi due terzi di questo libro.
Eviteremo di entrare nel merito della dottrina e del metodo, delle straordinarie qualità del grecista, magari in relazione a quel cruciale ed esaltante capitolo di storia della filologia che va da Karl Lachmann a Eduard Fraenkel e, appunto, Giorgio Pasquali: nessun riassunto potrebbe sostituirsi al libro. Assai più interessante per il lettore non specialista, in gloria di colui che rimane senz’altro uno dei più affascinanti poligrafi italiani del secolo scorso, concentrarsi su certi pregi dello scrittore, riscontrabili anche in queste pagine, che appartengono non solo al filologo, ma anche allo storico, al narratore e persino allo stilista. Provate a saltabeccare tra queste pagine e ve ne renderete subito conto. In effetti, su un ideale asse che abbia come poli estremi il coetaneo Emilio Cecchi e Gianfranco Contini, che lo ammiravano, Pasquali andrebbe collocato esattamente in mezzo: se il primo, a proposito della scomparsa del grecista, parlò di una delle perdite più gravi per la letteratura italiana, il secondo, giovanissimo, appena letto Storia della tradizione e critica del testo – lo ricorda Agamben – si sentì subito costretto «a un radicale “esame di coscienza”». In questo senso è difficile dare torto a Agamben quando così chiude il suo discorso su che tipo di intellettuale sia diventato Pasquali alla fine del suo percorso: «Egli non poteva non rendersi conto di aver compiuto senza alzare la voce quel transito per lui affatto naturale dalla filologia alla filosofia che un secolo prima il suo amato maestro Wilamowitz aveva incautamente rimproverato a Nietzsche».