il Giornale, 4 giugno 2024
Quando Montanelli varò «il Giornale»
Pubblichiamo qui, in accordo con l’editore Rizzoli, uno stralcio della lunga introduzione di Luigi Mascheroni al libro «Come un vascello pirata. 50 anni de Il Giornale nelle parole del suo fondatore» (pagg. 288) che raccoglie alcuni degli articoli più belli scritti da Indro Montanelli nei suoi vent’anni di direzione (dal 1974 al 1994) e che è acquistabile da oggi sia in edicola (assieme al Giornale) sia in libreria.
Mai stato montanelliano. Mai conosciuto Montanelli, anche se per racconti raccontati di chi gli fu amico o nemico ho finito col sapere molte cose di lui, oltre alla biografia ufficiale. Mai incontrato di persona; ma ho visto centinaia di foto, decine di documentari e interviste tv, e ho imparato a riconoscerne l’accento e i modi, ora polemici, ora affabili, ora beffardi. E mai avuto il mito di Montanelli, troppo inafferrabile, troppo sprezzante, troppo unico, troppo bravo: ne invidio l’altezza della scrittura, mi spaventano le penombre della vita. Ammiro lo stile, mi sfugge il carattere. Mi immedesimo quando inizio a leggerlo, prendo le distanze quando chiudo la pagina.
Non credo che lui avrebbe preso uno come me nei suoi giornali. Ma a me sarebbe piaciuto molto lavorare con lui al «Giornale».
Quando sono entrato al «Giornale», Indro Montanelli, che ne fu direttore per vent’anni, 1974-1994, se ne era già andato da sette. Erano i primi mesi del 2001. Morì quell’anno, il 22 luglio. Si era nel mezzo dei fatti di Genova, quando la città, sede del G8, divenne il campo di battaglia tra movimenti no-global e polizia. Lo studente Carlo Giuliani era morto la sera del venerdì. La notte del sabato c’era stato l’assalto alla scuola Diaz. Indro Montanelli prese congedo dai suoi lettori e dalla sua «lunga e tormentata esistenza», come scrisse in una brevissima lettera-testamento, nella clinica La Madonnina di Milano, nelle stesse stanze in cui neanche trent’anni prima era morto Dino Buzzati, per dire le coincidenze significative del giornalismo. Montanelli aveva novantadue anni. Era nato nel 1909 e aveva attraversato il Novecento.
La notizia arrivò in redazione nel pomeriggio, sul tardi.
Quando la voce della sua morte salì le scale del palazzo milanese di via Negri che fin dal 1979 ospitava «il Giornale» (ce ne siamo andati da poco, nel dicembre del 2023, fine di un’epoca...), tutti eravamo concentrati sulla cronaca, e quasi ci infastidimmo per l’irruzione della Storia. Eppure avevamo perduto il più grande giornalista italiano di sempre. Il grosso della redazione quel giorno, per l’urgenza del quotidiano, continuò a imbastire pagine sul G8 genovese: la mattanza alla scuola Diaz, la striscia di sangue e di polemiche per la morte di un ragazzo in piazza Alimonda, la città messa a ferro e fuoco dai black bloc E così la nobile incombenza di seppellire, giornalisticamente, il Fondatore, fu affidata alla sparuta pattuglia della Cultura. Dove lavorava e dove lavora ancora oggi chi scrive.
Le agenzie quel pomeriggio impazzirono, la morte di Indro Montanelli era da tre asterischi, i suoi colleghi piansero e scrissero, tutti vollero ricordarlo, si srotolarono le pagine sulla sua vita, la sua carriera, il suo «Giornale», si selezionarono le firme, si scelsero le foto più belle, si indossarono i guanti bianchi per la «prima» e Mario Cervi, il più amico fra gli amici, il quale fino a quel momento per rispetto e per speranza non aveva voluto preparare il coccodrillo, dettò ai dimafonisti come facevano i grandi inviati di un tempo le novanta righe più difficili della sua carriera. Titolo del «Giornale» del giorno dopo, lunedì 23 luglio 2001, due righe in Times corpo 400: «Addio Indro». La cronaca l’avevamo archiviata. Iniziava la leggenda.
La leggenda di Indro Montanelli, un uomo e un giornalista che continuò a impersonare per tutta la vita un pensiero irritante perché radicalmente alternativo, affonda le radici prima di tutto nel suo stile inimitabile, certo; poi nella sua biografia; quindi nel suo carattere.
Lo stile nel suo caso significa una scrittura chiara, limpida, diretta, che alterna il racconto al mot d’esprit, l’arguzia alla citazione colta (anche se magari inventata...), l’analisi sottile all’aneddoto irresistibile, l’intuizione all’affabulazione, il fatto di cronaca alla battuta sferzante, capoverso dopo capoverso, giù dritto senza prendere fiato, i giri di frase perfetti, le parole più adatte, periodi levigatissimi, asciugati allo stremo, mai un aggettivo di troppo, veloce ma con giudizio, mai un’incertezza, mai un inciampo, una tirata unica, che sia un corsivo o un editoriale, un reportage o una risposta ai lettori, dall’incipit all’ultima riga, ipnotizzando il lettore. Si chiama classe.
La sua biografia, invece, dimostra che più si è grandi, e più vite si hanno vissuto, maggiori inevitabilmente sono le contraddizioni e le sfaccettature che si finisce con l’accumulare. E nelle sue molte e lunghe esistenze Montanelli di contraddizioni e sfaccettature ne ha collezionate molte. L’intellettuale anarchico, il giovane fascista, il «resistente», l’anticomunista, il conservatore, l’(anti)berlusconiano: gli toccò persino di essere ricoperto di applausi a una Festa dell’Unità, pensa te...
Dalla conquista dell’Etiopia alla guerra di Spagna, dall’invasione russa della Finlandia alla campagna di Grecia, dall’Italia in camicia nera a quella delle casematte rosse, da Andreotti a Fanfani, da Prodi e Berlusconi, fu sempre in prima fila, da protagonista. Tra le ideologie, le chiese e le fazioni che attraversò, con ingenuità, opportunismo o indifferenza, di fatto non stette mai davvero né dall’una né dall’altra parte, e scelse sempre se stesso. Come tanti, peraltro. Lui, semplicemente, lo fece meglio.
Per quanto riguarda il carattere, poi, Montanelli fu tutto, e di più. Intelligente, furbissimo, teatrale, umbratile, burbero, talentuoso, insofferente, a suo modo coraggioso, sicuramente geniale, generosissimo, indifferente al denaro, solitario di natura eppure personaggio obbligato a molte frequentazioni, vanitoso, sempre in cerca di applausi è vero ma allergico al conformismo. Inguaribile anti-italiano che però dell’Italia non poteva fare a meno e che dell’italiano portava tutti i congeniti difetti, ebbe l’abilità e il tempismo di sfruttare vantaggi o occasioni, rimanendo sempre in scena. Conosceva bene sé stesso, con cui fece sempre i conti, e conosceva ancora meglio l’Italia, alla quale raccontandola non perdonò mai nulla. Voleva essere soltanto un giornalista e invece diventò tante cose: simbolo, icona, eroe, nemico, modello. Bandiera di una cosa e del suo contrario. È destino.