il Giornale, 4 giugno 2024
I castelli di sabbia eterni di Montherlant
Il bestiario celeste, di Henry de Montherlant, pubblicato ora da Aragno (traduzione e note di Giovanni Balducci, pagg. 98, euro 16), uscì per la prima volta in Francia nel 1968, una di quelle edizioni illustrate, le litografie erano del pittore surrealista Frédéric Delanglade, e a tiratura limitata, che punteggiano l’attività di questo scrittore, attento amministratore e moltiplicatore, edizioni d’arte, anticipazioni per riviste, estratti scelti, miscellanee ad hoc, della sua produzione letteraria.
Pur senza essere attaccato al denaro, Montherlant viveva del suo lavoro e metteva nelle trattative con gli editori la stessa attenzione e la stessa passione riversate sulla pagina scritta, senza che per questo le prime interferissero sulla seconda. Era, se si vuole, un gioco, come del resto è stata un po’ tutta la sua vita, un gioco dove la creazione e la distruzione avevano lo stesso peso, l’alternanza era la ragion d’essere e in fondo il Tempo non è altro, appunto, che un bambino che gioca: «I bambini fanno un castello di sabbia: tre ore di sforzi e di industria. Poi c’è l’ora di rientrare, e lo calpestano con voluttà. Il gioco, è questo, essenzialmente». In uno dei suoi ultimi libri, La marée du soir, «la marea della sera», rimane questa convinzione, l’arco della vita che ha la morte come opera e insieme come bersaglio, il proprio annullamento come obiettivo finale...
Nella sua casa di Parigi, al numero 25 di Quai Voltaire, dove Montherlant visse dal 1939 sino al suo suicidio nel 1972, il visitatore restava stupito per l’abbandono e la nudità del salone in cui lo scrittore riceveva, muri scrostati, mobili mancanti, cui facevano da contrappeso busti di marmo e di bronzo, oggetti d’arte antica: «Le manchevolezze sono lì per ricordare al visitatore che quelle opere d’arte non lo devono illudere; anche in mezzo a loro il principio dominante in quel luogo è l’indifferenza. Quello spazio e ciò che contiene non sono cose importanti per l’occhio di chi ci abita, perché vi fa strettamente convivere la bellezza e la rovina: per lui, l’importante è altrove».
Di questa sontuosa indifferenza, in cui le bellezze del mondo classico erano il riflesso di una venerazione, Montherlant confessava di essere debitore a Gabriele d’Annunzio. Ancora a metà degli anni Trenta, quando la sua passione per le antichità era al suo massimo, nel timore dei venti di guerra che si aggiravano sull’Europa e dei rivolgimenti sociali che, con il Fronte popolare, agitavano la Francia, Montherlant aveva per un momento pensato di mettere un freno alla sua bramosia di collezionista. La lettura di un brano di d’Annunzio gli aveva fatto cambiare idea: nel settembre del 1914, quando la Prima guerra mondiale era stata già dichiarata e l’esercito tedesco era già a Compiègne, lo scrittore italiano aveva comprato a Parigi dei vasi persiani: «Capii la lezione e come vidi un bel pezzo d’antiquariato, era un marmo romano, me lo regalai...».
Nel Bestiario celeste, in cui non tutti i testi sono inediti, il tema di fondo è l’astrologia, anch’essa un gioco, ovvero trattata con la massima serietà senza per questo prenderla seriamente, a patto cioè «di credere in queste cose, in cui credo non credendoci, come faccio per tante altre». Come dovrebbe esser noto, Montherlant cambiò il suo giorno e il suo anno di nascita, dal 20 al 21 aprile, dal 1895 al 1896. Sull’anno, il suo principale biografo, Pierre Sipriot, accoglie l’ipotesi che servisse a nascondere il suo poco zelo nell’andare in guerra, ma va ricordato che nel 1914 Montherlant era stato riformato una prima volta alla visita di leva, per problemi cardiaci, e però brigò successivamente per andarci da volontario: che quindi avesse diciannove o vent’anni allo scoppio del conflitto, cambia poco.
Sul giorno, è chiaro che lo scegliersi quello della fondazione di Roma aveva un richiamo irresistibile per chi, come lui, riteneva il latino la sua «lingua interna». Del resto, per Montherlant il mondo antico era un rifugio e insieme un soccorso: «Checché se ne dica, non c’è nulla di ridicolo nel galvanizzarsi nella prova ricorrendo a personaggi della storia o della finzione, questa ricetta è anche data espressamente dal fondatore della scuola stoica, è stata familiare a tutto il mondo greco-latino. E non mi sembra meno intelligente cercare la forza nei fatti e nei detti di un’altra era, reale o immaginaria, del cercarla in un’idea storica o metafisica di tutta evidenza assurda. Infine, questi ricorsi e questi soccorsi, ecco la solidarietà umana in quello che ha di migliore».
Così come si scelse una data mitica come data di nascita, allo stesso modo Montherlant fece per quella della morte, il 21 settembre del 1972, ovvero il giorno dell’equinozio d’autunno, «quando giorno e notte si equivalgono»: così facendo poneva la sua morte nel segno dell’indifferenza e tutta la sua vita sotto quello del gioco, come in effetti fu.
Per capire meglio la romanità di Montherlant, nata a otto anni dalla lettura di Quo vadis?, bisogna metterla in contrapposizione con la sua grecità. In un bel libro di Pierre Duroisin, Montherlant et l’Antiquité (Les Belles Lettres), giustamente citato dal curatore del Bestiario celeste, questa dicotomia è ben spiegata, laddove è la filosofia greca quella rifiutata, e quindi Socrate e Platone, e quindi la metafisica, a petto dell’eroismo dell’Iliade, della saggezza di Eraclito, del pessimismo tragico di Eschilo così come di Tucidide. È una lettura che deve molto a Nietzsche, ma che affonda, nella sua controparte romana, in ciò che era un tutt’uno con la sua natura, «l’arte del godere e l’arte di morire», con al centro tra le due, il coraggio, la gravità, l’infamia e la tristezza: «I romani non si interessavano molto all’economia, alle matematiche, alle scienze, anche alle scienze naturali, non ne conoscevano niente, e quando gli capitava di occuparsene un poco, dicevano delle sciocchezze. Non si interessavano che all’uomo, ne conoscevano la psicologia e la morale e, essendo quei limiti dello spirito i miei, è una delle ragioni per cui mi sento bene con loro. Per dirla tutta, si piccavano anche di un po’ di metafisica, il che gli faceva dire delle stupidaggini».
L’inattualità di Montherlant, ovvero il suo non essere al passo con il proprio tempo, il suo non credere all’idea di progresso, va letta proprio alla luce della sua idea di romanità. È sotto questo aspetto che il famoso esempio dei dotti di Bisanzio che discutevano del sesso degli angeli mentre la città è in fiamme, gli sembrava tutto fuorché ridicolo: «Essendo dei dotti, e non essendo che quello, che volete facessero d’altro... Se avessero discusso dei problemi dell’era presente avrebbero con ciò fermato i Barbari? Piuttosto che vederli abbandonare il campo per qualche triste riparo, mi piace che attendano la morte con tranquillità e disdegnando di cambiare, per poco che sia, quello che sono».
Nel Bestiario celeste, che contiene fra l’altro un’interessante nota di Giuseppe Balducci sull’«Origine e destino dell’astrologia», non ci sono solo i segni zodiacali, ci sono altresì gli animali mitologici, l’unicorno, il drago, la fenice, l’idra, e occuparsene, fa capire Montherlant, è più interessante del leggere i fatti di cronaca o di politica sul giornale: hanno a che fare con l’eterno, non con il transeunte, rimandano all’uomo come sempre è stato, nonostante il passare dei secoli. Hanno anche a che fare con quell’altro elemento fondamentale del gioco che è il mascheramento e anche qui Montherlant la pensava come Nietzsche: «Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e più ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera, grazie alla costantemente falsa, cioè superficiale, interpretazione di ogni parola, di ogni gesto, di ogni segno di vita che egli dà».
Mascherarsi, proteggersi dall’opinione della folla, nascondere ciò che si ha di interiore, disprezzare ciò che va per la maggiore, vivere a parte per vivere più intensamente e più internamente: a tutto questo Montherlant restò fedele per tutta la vita, così come la sua morte è nel segno di quel mondo antico così amato e nel quale solo per un capriccio del destino non aveva potuto vivere, se non riproducendolo nella profondità del suo essere.