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 2024  giugno 04 Martedì calendario

Intervista a Tim Robbins


Non è lo sfizio di una star annoiata. Un modo per passare tempo fra un film e l’altro. Per Tim Robbins la musica è qualcosa di serio. Premio Oscar per Mystic River e simbolo della Hollywood progressista, l’attore e regista il 2 agosto sarà in concerto al Magna Graecia Festival di Catanzaro con le sue canzoni folk e la Rogues Gallery Band. «Non c’è nulla di più bello, e allo stesso tempo terrificante, che starsene con una chitarra a cantare le tue canzoni davanti a un pubblico. Tutto il resto si cancella, sei tu con la band e non puoi dare la colpa a nessun altro. Ti assumi la paternità totale della storia che vuoi raccontare. Sebbene sia qualcosa di effimero, quella storia dura fino a che hai una chitarra e un pubblico».
E col cinema?
«È diverso... Lì puoi aggiustare tutto col montaggio, è un processo in continua evoluzione».
Suo papà Gil era un folk singer...
«Anche mamma era musicista. Si erano conosciuti nella banda dell’università a Los Angeles: mamma suonava il flauto e papà la grancassa. Lui è stato un compositore classico, poi professore di musica al liceo, e nel 1960 con un trio è andato a New York a scoprire il folk revival al Village. Alla veglia per Cisco Houston, leggenda del folk, rimase colpito dal forte senso di comunità che sentiva nella scena».
Come il folk del Village, anche il suo cinema ha sempre avuto un forte impegno sociale. Nella musica di oggi è scomparso, perché?
«Per lo stesso motivo per cui se vai in un museo ci sono pochi artisti che ti emozionano quanto Goya o l’espressionismo tedesco. L’arte è cambiata, è sempre più forma e meno contenuto. Però credo che se c’è mancanza di bellezza e grazia nel mondo, se non c’è compassione per chi è diverso da noi, se siamo divisi, l’arte ci può aiutare».
Come?
«La musica o il teatro creano aggregazioni in cui non tutte le persone sono d’accordo su tutti i temi sociali e politici, ma per due ore si crea una comunità che condivide emozioni, risate, lacrime e ne esce più unita di quando è entrata. Questo era l’obiettivo del teatro greco. Ed è quello che provo fare proprio ora a Los Angeles con Topsy Turvy, spettacolo per il quale ho scritto anche sei nuove canzoni, un vaudeville con la struttura della tragedia greca».
Folk
A 12 anni suonavo
la chitarra, in casa non avevamo la tv, mio padre era un folk singer
La musica è entrata subito nella sua vita, ma tardi nella carriera. Come è andata?
«La musica è nel mio Dna. Ho iniziato a suonare la chitarra a 12 anni. Non avevamo una tv in casa e i nostri momenti di intrattenimento erano orali, non visivi. Qualche anno dopo ho iniziato a scrivere canzoni, ma stava decollando la mia carriera di attore. A quel punto ho incorporato la musica in tutti i film che ho scritto e diretto».
Più avanti non c’è stato bisogno delle immagini...
«Nel 2009, dopo un paio di progetti di regia andati male, ero un po’ giù e ho deciso di registrare 15 canzoni. Al funerale di Robert Altman, il suo music supervisor Hal Wilner ha scoperto che avevo questi brani. È stato uno di quei momenti in cui nella tua vita entra un angelo. Avevo più di 50 anni, è stata una sfida. Mi ha fatto conoscere Lou Reed, Leonard Cohen, Shane McGowan... E anche la Rogues Gallery Band con cui ho fatto il disco e un tour mondiale per nulla glamour: dopo i concerti partivamo per la tappa successiva dormendo sul bus. Ma l’energia che si crea con il pubblico è qualcosa di unico e appagante. Al cinema non hai la reazione diretta con il pubblico, non sei con loro in ogni sala».
Le sue sono canzoni pieni di personaggi. Quella che potrebbe diventare un film?
«“Time to Kill”: parla di un ragazzo che ho incontrato in un bar in Colorado. Era un militare appena tornato dall’Iraq e mi ha raccontato che era stato coinvolto nell’uccisione di persone innocenti... È stato così potente che ho scritto la canzone quella stessa sera».
La sua prima regia, «Bobby Roberts», era un finto documentario su un cantante folk populista che si candida alla Casa Bianca. Con Trump la realtà è andata oltre la finzione?
«Avrei voluto non diventasse vero, era un tentativo di avvertire la gente».