Corriere della Sera, 4 giugno 2024
L’inizio precoce della Guerra fredda
Dalle relazioni dei servizi segreti alleati che operarono in Europa nel corso della Seconda guerra mondiale e dai rapporti che essi instaurarono con i movimenti di resistenza antifascista e antinazista emerge un quadro più preciso delle condizioni per cui andò presto in frantumi la grande alleanza contro Adolf Hitler e iniziò (ma forse da qualche parte era già iniziata) la contrapposizione tra il mondo comunista e quello occidentale. Questo il tema di un importante libro di Tommaso Piffer Il fronte segreto. Gli Alleati, la Resistenza europea e le origini della Guerra fredda 1939-1945, edito da Mondadori. Piffer giunge alle conclusioni che una prospettiva comparativa sui movimenti di resistenza mostra che all’inizio degli anni Quaranta in Europa si determinò «una sovrapposizione di diversi conflitti etnici, nazionali e ideologici». Pur «all’interno di una grande guerra antinazista».
Fino a qualche decennio fa molti Paesi europei raccontarono a se stessi d’essersi liberati sostanzialmente da soli, nascondendo, o quasi, un assai poco quantificato «aiuto da fuori». Il caso più clamoroso fu quello della Francia. Il celebre discorso di Charles de Gaulle ai propri compatrioti del 25 agosto 1944 – nella Parigi che, a tre mesi dallo sbarco in Normandia, aveva appena cacciato i nazisti – concedeva poco o nulla ai liberatori anglo-americani. La capitale, secondo il generale, si era «liberata con le proprie mani». E doveva quel risultato al «proprio popolo» che aveva agito «con l’aiuto degli eserciti della Francia, con l’appoggio e il concorso della Francia tutta, della Francia che lotta, dell’unica Francia, della vera Francia, della Francia eterna!». Come ha messo ben in rilievo Olivier Wieviorka in Storia della Resistenza nell’Europa occidentale 1940-1945 (Einaudi) il ruolo decisivo svolto dagli Alleati nel compiere lo sbarco in Normandia, nell’armare i resistenti francesi e nel costringere i tedeschi a ritirarsi, da de Gaulle venne «pressoché sottaciuto». Anche in Italia fino ai primi anni Ottanta, scrive Piffer, la maggior parte delle storie del movimento di Resistenza «non solo ignorava l’apporto dato dagli Alleati occidentali», ma sosteneva che il vero interesse degli anglo-americani «fosse stato quello di limitare il ruolo della Resistenza locale perché un’Italia forte non sfidasse gli interessi britannici nel Mediterraneo».
A favorire questa immagine forse aveva contribuito Winston Churchill. Nel 1944, per promuovere la sua strategia nel Mediterraneo a discapito dell’approccio continentale favorito dagli americani, il premier inglese «esagerò il ruolo della Resistenza nel Sud della Francia, in Italia e in Jugoslavia». In questo modo ottenne un forte aumento delle forniture di armi ai combattenti locali. Ma fu poi costretto a «fare i conti con i limiti della guerra partigiana». E con la «riluttanza degli americani a spostare la propria attenzione dalla Francia continentale». Talvolta in confronti anche aspri. Sicché oggi in sede storica «è lecito chiedersi se queste armi siano state utilizzate efficacemente contro i tedeschi». Per fare un esempio, se si prende in considerazione la Jugoslavia, è ragionevole pensare che le armi fornite alla resistenza «siano state usate per distruggere ciò che restava del movimento cetnico di Mihailovic». Per di più, i servizi segreti statunitensi furono spesso tenuti all’oscuro delle reali intenzioni di quelli inglesi.
Quanto ai sovietici, Piffer giunge alle conclusioni che al tavolo delle trattative con inglesi e americani furono sempre in una posizione assai meno forte di quanto gli Alleati occidentali si rendessero conto. E che l’attacco hitleriano del giugno 1941 modificò le strategie di Stalin in una misura molto minore di quella accreditata dagli storici. Se analizziamo in modo più dettagliato, «le direttive impartite ai partiti comunisti», esse «mostrano un notevole grado di continuità nel periodo 1939-1945, quando Mosca fu alleata prima con Berlino e poi con Londra». Come ha notato Silvio Pons – in La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale 1917-1991 (Einaudi) – Stalin non spiegò mai quali sarebbero stati i passaggi del percorso dalla collaborazione allo scontro con gli Alleati. Né fornì le risposte cruciali poste dal conflitto, come «la natura del rapporto tra guerra e rivoluzione». Da uno studio accurato sulla Resistenza in Europa si scopre che già nella prima metà degli anni Quaranta si potevano intravedere molti segnali della Guerra fredda tra il mondo comunista e quello occidentale il cui inizio è ancor oggi ufficialmente datato a un anno dopo la conclusione del conflitto mondiale. Alla fine, scrive Piffer, «il mantenimento dell’alleanza con il mondo capitalista e l’espansione della sfera d’influenza sovietica si rivelarono due obiettivi tra loro incompatibili». Anche se il quadro della suddetta alleanza fortunatamente resse fino al 1945.
Ciò è dovuto all’impreparazione dell’universo anglosassone – Gran Bretagna dal maggio del 1940, Stati Uniti dall’inverno del 1942 – ad affrontare su scala continentale la complessità di una resistenza a nazisti, fascisti e loro alleati. La Guerra civile spagnola (1936-1939) non aveva offerto elementi – se non parziali – per un’elaborazione approfondita. Anche se qualcosa era stata già individuabile negli anni che avevano preceduto la Seconda guerra mondiale proprio nella triennale insurrezione capeggiata da Francisco Franco.
Per aiutare le formazioni partigiane, gli inglesi crearono il Soe (Special Operations Service), gli americani l’Oss (Office of Strategic Services). Londra in realtà si era mossa già prima dell’inizio della guerra, nell’aprile del 1938, creando una sezione speciale del Sis (Secret Intelligence Service) incaricata di predisporre un piano d’azione nella prospettiva di un conflitto con Hitler. L’incarico di preparare il progetto fu affidato al maggiore Laurence Grand, un estroso militare di carriera con esperienze di guerra in Francia, Russia settentrionale e Kurdistan. Grand non aveva un’idea precisa del contesto in cui si sarebbe dovuto predisporre la guerriglia contro la Germania hitleriana. Il suo piano iniziale prevedeva la distruzione di impianti elettrici e di telecomunicazione. E fin qui… Ma anche, ricostruisce Piffer, «l’avvelenamento del cibo, l’incendio di foreste per distruggere fabbriche nascoste tra gli alberi, la diffusione di malattie delle piante alimentari oltreché degli animali». E «il sabotaggio delle ferrovie con finti blocchi di carbone esplosivi». A detta di Grand, i migliori candidati per questo genere di azioni in Germania erano le organizzazioni comuniste. Si dovevano però reclutare, per azioni speciali, anche «operai isolati». Mentre il «sabotaggio morale» sarebbe stato «un lavoro adatto agli ebrei».
La sezione affidata a Grand diventò operativa nel marzo del 1939, poco dopo l’invasione tedesca della Cecoslovacchia. Il piano, aggiornato, prevedeva «l’introduzione di armi e la creazione di bande di guerriglieri in Romania, Danimarca, Paesi Bassi, Polonia e Boemia». Poi «l’organizzazione di una rivolta armata in Germania». Più specificamente Grand propose di «piazzare delle mine sotto gli unici alberghi delle tre principali città della Romania settentrionale» nella prospettiva che, se questa regione fosse stata conquistata dai tedeschi, Hitler avrebbe potuto «affacciarsi al balcone di uno dei tre hotel». Il maggiore sosteneva che era possibile preparare una rivolta in Romania in sole tre settimane. Mentre sarebbero occorsi dai tre ai quattro mesi per organizzare una sommossa generale negli altri Paesi europei. Germania inclusa. La cosa più difficile, scrisse, sarebbe stata «tenere a freno persone che, appena avessero avuto in mano delle armi, sarebbero state pronte a sferrare l’offensiva». Lord Halifax, ministro degli Esteri inglese, diede il suo placet al fantasioso piano di Grand. Segno, il tutto, di una percezione alquanto approssimativa della realtà continentale europea.
Poi, a fine agosto del 1939, giunse l’ora del patto Molotov-Ribbentrop, che mandò a monte ogni progetto di collaborazione con i comunisti. I quali si mostrarono quasi dappertutto, pur nella comprensibile confusione, disponibili ad accogliere la direttiva staliniana di non contrastare le aggressioni naziste. Prima tra tutte quella alla Polonia a inizio settembre del 1939, a cui ne sarebbe seguita, a metà mese, una sovietica. Stalin convocò una riunione il 25 ottobre del 1939 in cui spiegò al segretario generale del Comintern Georgi Dimitrov che nei Paesi immessi nell’orbita di influenza sovietica dovevano essere rispettati «regime interno» e «autonomia». «Non cercheremo di ottenere la loro sovietizzazione», aggiunse, «verrà il tempo in cui lo faranno loro stessi». Non andavano ripetuti, secondo il dittatore georgiano, gli errori che avevano commesso i bolscevichi quando, dopo la Prima guerra mondiale, avevano sopravvalutato le proprie forze. «Da allora qualcosa abbiamo imparato, siamo diventati più intelligenti», concluse Stalin. Il tutto è riportato, dettagliatamente, nel Diario di Dimitrov – sottotitolo: Gli anni di Mosca (1934-1945) – edito da Einaudi.
Quando, il 9 aprile del 1940, la Germania nazista invase Danimarca e Norvegia, i comunisti norvegesi si scagliarono con parole di fuoco contro la guerra causata «dalle provocazioni criminali degli imperialisti inglesi». Ed esortarono l’esercito del proprio Paese a non combattere contro le truppe di Hitler. Poi, in maggio, pubblicarono un appello con cui incoraggiavano il popolo a raggiungere un’intesa con le forze d’occupazione hitleriane e a instaurare strette relazioni economiche con la Germania. Il Comintern dovette intervenire per raccomandare ai norvegesi di evitare «esagerate dichiarazioni filotedesche» che avrebbero potuto «fare il gioco» degli occupanti. Ma li esortò a persistere nella polemica contro la Gran Bretagna. I comunisti di Praga, rileva Piffer, «fecero candidamente sapere a Mosca che aleggiava tra gli operai un certo disorientamento riguardo alla natura della guerra e alla politica dell’Unione Sovietica». Dimitrov trascorse un intero mese a scrivere un articolo per spiegare la posizione dell’Internazionale comunista. Il testo fu bocciato e Dimitrov dovette prendere altri giorni per riscriverlo. Al termine di questo snervante lavoro, al capo del Comintern toccò persino di essere sbeffeggiato da Ždanov che gli si rivolse con queste parole: «In un simile lasso di tempo il compagno Stalin avrebbe scritto un libro intero».
Con il Comintern che si sfilava dalla lotta contro il nazismo, scrive Piffer, Londra fu costretta a candidarsi a centro dei movimenti sovversivi antitedeschi dell’Europa intera. A guerra iniziata, perciò, gli inglesi dovettero muoversi per primi, con un anticipo di oltre un anno sugli americani. Purtroppo, ha ricordato Max Salvadori al tempo agente del Soe, «mancava loro l’esperienza dei movimenti clandestini e la comprensione della situazione nei Paesi fascisti». Ciò era dovuto al fatto che gli inglesi «non avevano mai vissuto sotto una dittatura». E «credevano che le iniziative romantiche di piccoli gruppi, simili agli occhi dei britannici a quelli che avevano dato vita a rivolte e rivoluzioni nell’Ottocento, potessero ripetersi nel Novecento». Il Soe, ricordava Salvadori, «partì sempre dal presupposto che i movimenti partigiani in Europa potessero essere utilizzati come strumenti per combattere la guerra inglese contro i tedeschi». Ma fu presto evidente che, invece, «i movimenti partigiani potevano utilizzare gli inglesi per combattere le proprie guerre ideologiche o etniche». Si crearono così situazioni assai complicate. Anche dopo il giugno del 1941, quando la Germania hitleriana invase l’Unione Sovietica e quest’ultima entrò nella grande alleanza antifascista ideata da Churchill. In Jugoslavia il Soe – per decisione di Churchill – aiutò la guerriglia di Tito contro quella di Mihailovic. E questo – come ha ben documentato Joze Pirjevec in Tito e i suoi compagni (Einaudi) – avrebbe contribuito nel dopoguerra a determinare una marcata autonomia dei comunisti di Belgrado da quelli di Mosca. Autonomia che avrebbe provocato nel 1948 la rottura tra Tito e Stalin. Nel 1944, con un realismo che non gli mancava, Stalin abbandonò al loro destino i comunisti greci, i quali impugnarono le armi contro il governo della liberazione. E furono sgominati dagli inglesi i quali pure li avevano armati fino a poco tempo prima. In Polonia l’Armia Krajowa su trovò a combattere due guerre: una contro la Germania e l’altra contro l’Urss (entrambe – come s’è detto – l’avevano invasa nel settembre del 1939). La «catastrofica distruzione nel 1944» dell’Armia Krajowa fu «il risultato diretto di questo doppio conflitto». Per di più le brigate comuniste che rispondevano a Mosca, condussero in tutta Europa una loro guerra specifica contro molte formazioni comuniste autonome, da loro etichettate come trotskiste. Complicazioni che non possono essere ignorate se si vuole davvero capire quel che accadde nel dopoguerra. E accade ancora oggi.