La Stampa, 4 giugno 2024
Maledetto colonialismo
Attenti! Attaccare la terra e il sole è un libro che scortica la Storia, pone inaudite domande politiche, cava sangue ad ogni pagina, non ci dà tregua. Segnatevi questo nome: Mathieu Belezi. È davvero uno scrittore pericoloso, porta il mostro, il delitto coloniale, dentro di sé, lo accudisce da anni e vuole contagiare gli incauti che si affacciano alle pagine del suo romanzo; per scoprire poi di esser invitati a una spettacolare dissezione dell’anima. Leggere sotto l’incalzare di una prosa dai toni scabri è come camminare nella notte quando tutti si perdono in strade che si credevano note e sicure. Alla fine, senza fiato, ti accorgi che abissi del genere non si possono oltrepassare senza lasciarci lembi di personale dolore.
In tempi in cui tra i falsari dello Sviluppo, tra i competenti del progressismo umanitario, torna di moda fingere di “aiutare l’Africa” per spremerne per l’ennesima volta il succo che ci interessa, materie prime, prigioni per migranti molesti, posizioni geopolitiche, senza aver mai abbozzato un timido “mea culpa” per i colonialismi, vecchi e nuovi, questo libro serve ad affrontare la materia mentre è in fusione, a non ricadere nell’imbroglio prima che diventi lava solidificata.
Forse è errato sintetizzare il romanzo che Gramma Feltrinelli porta nelle librerie italiane come un racconto dell’inizio della colonizzazione francese in Algeria, insomma una epopea criminale dei pied noir. Sì, c’è una data, 1845, appena quindici anni dopo lo sbarco dei “civilizzatori” su quella che sarebbe diventata la quarta sponda della poco fraterna République. Le tragedie intrecciate di una donna, Seraphine e della sua famiglia gettata nel deserto algerino con la falsa promessa di una nuova vita, e di un soldato anonimo che procede con i commilitoni alla “pacificazione” degli arabi a colpi di massacri, stupri e saccheggi, in realtà sono un disperato ritratto della inesistenza di dio nella Storia. O se volete è il racconto della fuga di un dio inorridito, che si nasconde per non dover guardare, fra il fragore delle armi e i gemiti dei suppliziati, le efferatezze che, in nome della civiltà e del progresso, compiono le sue creature. Nel colonialismo narrato da Belezi, fin dallo sboccio il peccato è qualcosa di tangibile, di vissuto: l’insediamento dei coloni, baracche in un deserto bruno e rovente avvolto da una luce accecante in cui perfino le montagne nude sembrano pallide; sassi che è inutile arare; il cimitero che il colera popola continuamente; bianchi villaggi arabi, le case una sopra l’altra, strette come scaglie di pigna; le marce frenetiche in un ossessivo cabotaggio criminale alla ricerca di donne da distribuire tra i soldati fino a consumarle con gli stupri e poi gettarle via come merce guasta.
Così la ferocia diventa qualcosa di ordinario, una semplice circostanza. Alla fine, nell’apoteosi di questo calvario, c’è solo la rinuncia: Stephanie che torna in Francia lasciando i figli morti in quella terra crudele. O la perfezione del massacro, “l’enfumade”, i grandi fuochi accesi davanti alle grotte in cui si sono rifugiati gli arabi e ascoltare gli strazianti lamenti di uomini donne e bambini che muoiono lentamente soffocati dal fumo. Al soldato infatti non resta che ripetere il commento del suo spietato capitano: «No, noi non siamo degli angeli». Il requiem desolato con cui il libro si chiude.
E gli algerini? Vittime che ogni tanto si vendicano decapitando qualche colono che si è spinto lontano dal villaggio fortificato. Ma anche loro uccidono senza illusioni o speranze. Come il vecchio che con voce dolce, ostinata, senza osare alzare il viso per guardare il capitano negli occhi, protesta per la violazione delle donne : «Sidi, sono le nostre donne...». E il capitano lo trafigge da parte a parte con la spada.
Il colonialismo, tutto, non solo quello francese, ha distribuito la morte come una regola del gioco applicata a freddo, nemmeno le vittime odiavano davvero. Era come pagare al gioco quando si è perduto. La massima crudeltà non è mai calda, si ha quando carnefici e vittime l’usano o la subiscono senza passione.
Non c’è, come si vede, supremo riposo in una finale rivelazione della pietà di dio. Non ci sono scuse possibili, scorciatoie economiche o teologiche. Il colonialismo si svela come dramma oscuro e omicida, ambizioso e protervo, marchiato dal cancro della violenza e della bugia. Per questo Belezi scende in mezzo a questi uomini che hanno fissato troppo intensamente la morte e ne sono ossessionati.
Forse bisogna citare Pascal che qualche volta fa concorrenza a La Palice: «Dire la verità è utile per chi la ascolta ma pericoloso per chi la dice, che si fa odiare». E costoro tanto più si fanno odiare quanto più ritengono necessario quella verità ripetere dopo averla enunciata. Non si tratta (mi metto nei panni di Belezi, ma anche di Camus) soltanto di un peso, la colpa coloniale, del quale sgravarsi la coscienza, si tratta di salvare dei principi e sentirsi umani. In Francia l’Algeria (e Vichy) sono ancora tabù intoccabili e si scrivono, con successo, libri per inveire contro la tirannia della penitenza e le lacrime dell’uomo bianco. È ancor più difficile dunque sfidare chi dice: «A che serve contare e ricontare i panni sporchi, tanto il bucato non si fa né oggi né domani?». O chi, gauche bonacciona e droit intraprendente, si appella a formulette scipite: i fratelli d’Africa… il grande abbraccio della francofonia...
Sull’Algeria questo scrittore della crudeltà della Storia lavora da venti anni come se fosse chino su un tavolo autoptico. E lo fa credo non a caso in un’ era di barbarie che di nuovo silenziosamente sta già rincalzando il letto degli uomini e siamo per l’ennesima volta con le spalle al muro. Il libro coincide con la fine in un naufragio stanco e senza gloria dei rimasugli dell’impero africano della Francia di cui l’Algeria fu la capitale perduta. L’ammaina bandiera di un anacronismo, ad opera, sottile paradosso, di un gruppo di golpisti saheliani una volta tanto indipendenti dagli ordini di Parigi. È morta finalmente! L’Africa dei “légionaire” e dei barbouzes, delle tangenti e dei Presidenti per grazia e per procura dell’Eliseo. Qualcosa che faceva parte ormai di un museo umano. —