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 2024  giugno 04 Martedì calendario

Intervista a Gustavo Zagrebelsky

«Le Costituzioni si fanno quando i popoli sono sobri a valere per quando sono ubriachi». Questa, per Gustavo Zagrebelsky, è una buona definizione di Costituzione. Che richiama – non è un caso che il presidente emerito della Consulta lo faccia – quel che va ripetendo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: la Carta è stata scritta per i tempi lunghi. Anche questo, deve tenere a mente chi si propone di cambiarla.
Presidente Zagrebelsky, si aspettava un attacco a Mattarella da parte della Lega proprio il 2 giugno?
«Abbiamo avuto presidenti della Repubblica presunti golpisti. Custodi della Costituzione che però la volevano cambiare. E, finalmente, presidenti garanti della Costituzione, come Mattarella. In quale tipo di presidente amiamo riconoscerci?».
Direi nell’ultimo. E questo dice molto di chi lo attacca.
«La domanda era retorica. È latente un conflitto: il presidente della Repubblica non perde occasione per parlare della lungimiranza della Costituzione. Le leggi ordinarie nascono dalle esigenze che mutano, le Costituzioni guardano ai tempi lunghi».
Che cosa pensa del dibattito sulla riforma costituzionale?
«Che non c’è».
Come non c’è?
«A Creonte, Antigone dice: è inutile parlarci perché tutto quel che piace a me dispiace a te. E tutto quel che dispiace a me piace a te. C’è una paralisi dialogica, perché questa riforma (ha sul tavolino, accanto al caffè, il disegno di legge) serve a costruire l’onnipotenza di un uomo o una donna. Questo, che disgusta alcuni, per altri è seduttivo. È una situazione di paralisi democratica. La democrazia presuppone la disponibilità ad intese e, dunque, l’utilità di discorsi che s’intrecciano. Questa condizione non c’è».
Si può uscire da questa paralisi?
«La risorsa sono i perplessi. Se il dialogo con l’altra parte è bloccato, restano coloro che ancora non sanno e vorrebbero farsi un’idea».
Che cosa fa lei per i perplessi?
«Vado nelle scuole dove trovo interesse e passione. Oppure a dibattiti pubblici, dove però, purtroppo il pubblico è già d’accordo. Il problema è raggiungere chi non lo è».
Quindi?
«L’altra domenica sono stato a Barbiana, alla chiusura del centenario dalla nascita di don Milani. C’erano tanti ragazzi e ragazze, attenti e interessati. Ho detto loro: dovete essere come dei megafoni in famiglia per parlare alla generazione dei 40-50enni tra i quali alligna buona parte dell’astensionismo, figlia del disinteresse».
Il timore delle prossime Europee è che non vada a votare neanche il 50 per cento degli aventi diritto.
«Suicidio della democrazia».
In controtendenza, stavolta sembra che ci saranno più giovani alle urne. Anche per via della loro battaglia sul Medio Oriente. Buon segno?
«Non mi sorprende. C’è un risveglio di sensibilità politica da parte dei più giovani. Sono la nostra speranza. Potrei dire la speranza della nostra patria».
Parola che piace alla destra e che la sinistra stenta a declinare.
«Bisogna intendersi su che cos’è la nostra patria. Una semplice espressione geografica, come diceva il principe Metternich? Il luogo del buon cibo e del buon vino, quello in cui si fa il miele con api nostrane – ho visto una pubblicità che lo diceva!».
Una Repubblica democratica fondata sul lavoro.
«Sono le prime parole della Costituzione. “Repubblica” significa res publica, bene di tutti, non privatizzabile; “democratica”, sovranità dei cittadini, diritti politici e civili, uguaglianza; infine, “fondata sul lavoro” significa, tra le tante cose, non fondata sulla rendita. L’Italia non è di quelli che una volta si chiamavano i rentiers, che vivono sul lavoro altrui».
Ma secondo Meloni il premierato consente una maggiore sovranità del popolo. Gli dà maggior potere. Non è così?
«Il popolo della democrazia non è il popolo del populismo. Quello è uno slogan efficace, che colpisce nel suo semplicismo. I contrari partono svantaggiati perché hanno bisogno di spiegare perché sono contrari a quello che, a prima vista, sembra un dono, una aggiunta alla democrazia».
Una mela avvelenata?
«Timeo Danaos et dona ferentes».
Temo i Danai anche quando recano doni, dice Laocoonte ai Troiani davanti al cavallo pensato da Ulisse. Se questa riforma è un cavallo di Troia, cosa c’è al suo interno?
«In un sistema in cui i cittadini, votando ogni cinque anni, si consegnano a qualcuno. Cinque anni, in politica sono un’eternità. Il meccanismo previsto può farli diventare anche 12 e mezzo. Se si sciolgono le Camere prima della metà della legislatura, il capo può ripresentarsi».
Non c’è limite?
«Il testo dice che non può esserci un terzo mandato consecutivo, ma dopo? E, se non fosse consecutivo?».
Teme un regime?
«Il veleno sta in quel che diceva Rousseau: “Gli inglesi credono di essere liberi, ma in realtà lo sono una volta ogni quattro anni, quando vanno a votare. Dopo sono schiavi di quelli che hanno eletto"».
Sì, ma alle nuove elezioni i perdenti possono diventare i vincenti. Questa riforma tutela la possibilità dell’alternanza?
«Le pare che dopo cinque anni di governo pressoché illimitato di una forza politica le successive elezioni si svolgeranno su un piano di parità? Quando per cinque anni hai potuto occupare tutti i posti di potere, eliminare i contrappesi?».
Vengono eliminati?
«Sì, perché con il sistema elettorale prefigurato chi ha vinto può prendersi il presidente della Repubblica con il premio di maggioranza, può creare a sua immagine la Corte costituzionale e il Csm, occupare la Rai e gli enti pubblici. Insomma, favorire gli amici a danno degli avversari. Chi dispone del potere ha una possibilità di acquisire e conservare il consenso, cioè i voti, molto maggiore di chi non dispone di altrettanti poteri».
Ma questo non renderebbe la democrazia sempre bloccata?
«Avvicinandosi le elezioni arrivano bonus e condoni di ogni genere da parte del governo. Chi è all’opposizione cosa può fare, se non vaghe promesse? Come Leopardi che dal paterno giardino guarda le vaghe stelle scintillanti. L’alternanza è fondativa della democrazia, ma presuppone che tra un’elezione e l’altra non si crei un eccessivo squilibrio di potere».
C’è già?
«Sì, è in corso un’occupazione che è già nella logica della riforma. “Vinco e prendo tutto”. Le espressioni che vengono dal cuore sono le più sincere, come quando si dice: “abbiamo vinto noi, fatevene una ragione”. In democrazia, l’idea che uno “se ne debba fare una ragione” a seguito dei risultati elettorali, è una bestemmia».
Non significa accettare il volere del popolo?
«Tutti devono sempre avere l’uguale possibilità di esibire, proporre, promuovere le proprie ragioni».
La riforma evita ribaltoni e governi tecnici, questo la convince?
«No, perché nella riforma è innestata una norma che consente una staffetta tra governi e maggioranze diversi. Il presidente del Consiglio può dimettersi come e quando vuole, senza un voto di sfiducia, e può proporre lo scioglimento delle Camere, oppure niente».
Cosa succede davanti a quel niente?
«Che il presidente della Repubblica può conferire l’incarico di formare il governo a chi vuole tra i parlamentari eletti in collegamento con il presidente del Consiglio. Un almeno parzialmente libero “governo del Presidente” che si cerca la “sua maggioranza”, indipendentemente dalla vittoria e dalla sconfitta elettorale».
Almeno non è un ribaltone.
«Davvero? A me pare di sì. Oltretutto forzato dal rischio di scioglimento delle Camere, se fallisce».
È la parte della riforma che meno piace a Meloni.
«Perché è stata fatta per non scontentare il secondo partito, che finora è stato la Lega. Al momento della formazione del governo saranno possibili accordi sottobanco nella prospettiva di future “staffette”. Altro che chiarezza di fronte all’elettorato».
Poi c’è la questione del premio di maggioranza, la preoccupa?
«Certo. Nella riforma è scritto che la legge elettorale deve assegnare un premio che garantisca al vincitore la maggioranza dei seggi in ciascuna Camera. Può trattarsi di un premietto o di un premione».
A seconda di quanto prende la coalizione che vince, certo. Se avrà il 30 per cento, può avere un premio che supera il 20. Questo cosa comporta?
«C’è una sentenza della Corte costituzionale. I premietti vanno bene, ma i premioni alterano la democrazia. La legge elettorale dovrà, allora, stabilire una soglia minima per ottenere il premio. Se non lo farà, sarà incostituzionale per eccesso premiale. Se lo farà, potrà essere incostituzionale lo stesso».
E perché mai?
«Perché vuol dire che il premio non scatta sempre e invece la riforma vuole che la legge elettorale “assicuri” comunque l’assegnazione del premio. È un cortocircuito».
Questa riforma è in nome della governabilità? Non è già possibile governare senza ostacoli quando si hanno maggioranze chiare come quella attuale?
«Esatto, visto che la premier può già ora fare tutto politicamente, chi gliela fa fare una riforma?».
Qual è la ragione?
«Con la riforma le componenti minoritarie della maggioranza non conteranno più nulla. Più che umiliare l’opposizione, la riforma vuole schiacciare proprio quelle».
E garantire governabilità.
«Che parola orribile. Un incantesimo lessicale davanti al quale bisogna drizzare le antenne. Tutte le parole con -abile, -ebile, -ibile, hanno un significato passivo. Un gregge governabile è quello sottomesso al suo pastore. Chi ha da essere governabile non è il fantomatico “sistema”, ma sono i singoli, le formazioni sociali e la società nel suo insieme. Governabilità significa limitare le pretese popolari, il cosiddetto sovraccarico di domande che i cittadini fanno allo Stato. La governabilità, al di là della sua sembianza neutrale, è l’ultima risorsa delle diseguaglianze dei potenti, che si arroccano contro i deboli quanto essi pretendono troppo».
Posso chiederle cos’è per lei la Costituzione?
«Lo dice in negativo l’articolo 16 della Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino. Tutte le società in cui non è assicurata la garanzia dei diritti e non è stabilita la separazione dei poteri, non hanno una Costituzione».
Con la riforma avremmo ancora una Costituzione?
«Adesso la domanda retorica è la sua. No, non ce l’avremmo, almeno nel senso voluto dal costituzionalismo. Così come l’Ungheria di Orbàn non ha una “Costituzione del costituzionalismo”, perché non possiamo definire tale un sistema che viola i diritti delle minoranze e i contropoteri del governo, primo fra tutti la magistratura». —