la Repubblica, 4 giugno 2024
4 giugno 1944: Roma finalmente libera
Il 4 giugno 1944 domenica, sono trascorsi 271 giorni dall’inizio dell’occupazione nazifascista della Capitale. All’alba le prime pattuglie statunitensi entrano in città. Mentre la Wehrmacht ripiega verso nord, gli Alleati entrano con circospezione, spingendosi fin dentro le antiche mura. Non c’è quasi traccia degli occupanti, le vie sono sgombre, alcuni cecchini rimangono nascosti nelle proprie postazioni.
Le divisioni in avanscoperta fanno da battistrada ai reparti della V Armata dell’esercito statunitense. Il generale Mark W. Clark entra in città da sud risalendo le vie Appia, Casilina e Prenestina. Dopo il tramonto, le truppe arrivano nel centro storico da Porta Maggiore. Si spara fino a tarda sera. Alle 21 in piazza di Spagna un conflitto a fuoco scuote le vie del tridente. Nazisti e fascisti lasciano il campo, abbandonano luoghi e strutture occupati per nove lunghi mesi; la popolazione irrompe nelle carceri, negli alberghi e negli appartamenti sedi dei comandi militari o polizieschi.
L’ultima strage compiuta dai nazisti in fuga avviene alla Storta, periferia nord, dove vengono fucilati quattordici prigionieri prelevati dalla prigione di via Tasso. Il 5 giugno cade colpito dal fuoco di un mortaio tedesco Ugo Forno, un bambino di dodici anni che all’insaputa dei genitori era impegnato nel tentativo di proteggere un ponte di ferro sul fiume Aniene, all’altezza dell’aeroporto dell’Urbe. Qualche sparuta forma di opposizione ritarda l’ingresso alleato, ma l’esito dei combattimenti è scontato.
La Liberazione dopo mesi di attesa cominciati il 22 gennaio 1944, quando lo sbarco degli Alleati sul litorale, a soli 60 chilometri di distanza, aveva creato illusioni e gioie spingendo i partigiani ad uscire allo scoperto. Ai primi di giugno cominciano a rincorrersi le voci di una svolta, Roma appare incredula e dubbiosa. Nei diari e nelle memorie prevale un senso di diffidenza; il timore di una cocente delusione, dopo le speranze tradite del 25 luglio e dell’8 settembre 1943. Le parole di Virginia Nathan (nipote di Ernesto, sindaco della capitale tra il 1907 e il 1913) restituiscono il clima di quelle ore di attesa, incredulità e gioia:
«Appena giungemmo al convento mamma e la madre superiora corsero ad ascoltare la radio. La Bbc diceva che gli alleati stavano per entrare a Roma. Restammo alzate in attesa di altre notizie: dicevano che forse sarebbero entrati la sera stessa. Andammo tutti nella soffitta del convento per spiare attraverso una finestrella che dava su via dell’impero. Verso le due della mattina del 4 giugno, vedemmo delle limousine: era una lunga fila di macchine nere. Ci sembrò chiaro che dovesse trattarsi degli alleati che entravano a Roma! Letteralmente impazzimmo. Tutti urlavano, sentivamo gente battere le mani e urlare il proprio benvenuto. Roma era sveglia, nessuno era andato a dormire. Quasi tutti avevano qualcuno nascosto in casa. Tutta la popolazione di Roma si rovesciò per strada a dare il benvenuto alle truppe americane e inglesi. Anche noi aspettavamo; quando furono le cinque e mancava poco alla fine del coprifuoco, annunciarono alla radio che Roma era libera e che gli alleati avevano varcato la soglia della città eterna».
La popolazione riempie le piazze alla ricerca di vecchi amici. Jim Delavay, un soldato americano imponente, in piedi su una jeep dirige il traffico delle autocolonne della V Armata a Porta Maggiore: è un indiano apache e viene dal Nuovo Messico. I corrispondenti di guerra si insediano negli alberghi del centro presidiati in passato dai tedeschi. Nella tipografia del Messaggero si manda in stampa Stars and Stripes giornale delle forze armate Usa, primo quotidiano di Roma liberata. Eric Sevareid, inviato di guerra della Cbs aveva seguito tra i soldati la marcia di avvicinamento alla città, definendola «grande entrata».
Il servizio dal vivo è del 4 giugno, a mezzogiorno: «Roma era davanti a noi, ma in realtà l’intera città era oscurata dal fumo e dalla foschia. C’era una strana sensazione nell’aria, un’atmosfera mista di battaglia e vacanze. Gli inviati, seduti, battendo sulle loro macchine da scrivere appoggiate sulle ginocchia. La gente si affacciava a tutte le finestre e si raccoglieva davanti a ogni porta. Le ragazze e i bambini lanciavano fiori alle due file di soldati americani che avanzavano lentamente, e ormai sulle torrette dei nostri carri armati campeggiavano i bouquet».
L’arrivo degli Alleati rappresenta l’occasione di incontro tra Resistenza e militari che vengono da lontano. Sin dalla prima notte gli Alleati e i partigiani si ritrovano insieme; in una complicata e fruttuosa collaborazione contribuiranno alla sconfitta finale delle truppe dell’Asse. Per gli uomini della Resistenza l’incontro con le truppe anglo-americane segna un momento chiave, si carica di speranze e sogni.
Rosario Bentivegna, Sasà, giovane partigiano scrive di una libertà ritrovata in una sera, ottant’anni fa: «Sul piazzale Tiburtino (erano le 19 circa) incontrammo la prima camionetta americana. La gente le si avvicinava insospettita, non sapeva distinguere bene dalla foggia dell’elmetto ricoperto dalle reticelle mimetiche e dalle divise rese uniformi dalla guerra se si trattasse ancora del nemico o se fossero i nuovi amici. Anche quei soldati erano stanchi, ma con una gran voglia di riposarsi dalle loro fatiche in mezzo a quella folla che ancora diffidava, che temeva di sbagliare, ma che si sentiva dentro il bisogno di salutare la libertà. Poi vennero fuori le sigarette – le Camel – e non ci furono più dubbi, e la gente corse impazzita intorno, nelle strade a urlare che erano arrivati gli americani. Forse questa volta il Medioevo nazista era finito davvero».