Il Messaggero, 3 giugno 2024
Intervista a Falcao
Da quasi tre settimane lo stato del Rio Grande do Sul, in Brasile, è alle prese con l’emergenza alluvione. Porto Alegre, la capitale, è stata tra le città più colpite. Auto e case sommerse, aeroporto allagato, migliaia di persone che hanno perso tutto bloccate sui tetti. Paulo Roberto Falcao ha già lanciato un appello via Instagram. L’occasione di una chiacchierata perlopiù calcistica con il Messaggero, gli regala possibilità di rilanciare il grido d’aiuto.
Falcao, com’è la situazione?
«Tragica. Fortunatamente oggi è stata la prima giornata di sole dopo tanto tempo e le previsioni danno sole per i prossimi 7-8 giorni. Il problema, però, ora che l’acqua si è ritirata, è il conteggio dei danni. Ci sono città che vanno ricostruite, l’acqua ha portato via tutto. Addirittura dei paesi sono letteralmente scomparsi e le autorità locali stanno pensando di spostare le persone in altri luoghi. Immaginate chi ha speso i risparmi di una vita in una casa e ora questa non solo non c’è più, ma non c’è nemmeno il posto nel quale è nato e cresciuto. Senza contare i morti: per ora sono 169 ma ci sono tanti dispersi. Chi può, ci aiuti».
Passare al calcio non è semplice. L’agevolo: la prima cosa della quale le farebbe piacere parlare?
«Agostino (Di Bartolomei, ndr). Nei giorni scorsi è stato l’anniversario dei 30 anni della sua morte. Per me è un ricordo sempre doloroso. Il nostro legame era così forte che tempo fa scrissi un libro “Storie di calcio” e gli dedicai un intero capitolo titolandolo “L’imperatore del centrocampo”. La prima volta che lo vidi, mi fece questa impressione. Con quel fare apparentemente scontroso, i capelli pettinati in avanti, somigliava a Caligola e nello spogliatoio in tanti iniziammo a chiamarlo così. Centrocampista tecnico, lancio lungo, intelligente in campo e fuori. Era un ragazzo molto serio, strappargli un sorriso non era facile ma sapeva anche scherzare. E poi, aveva una generosità fuori dal comune».
Può raccontare qualche aneddoto?
«Quando arrivai mi fece un po’ da Cicerone. Io non conoscevo nulla di Roma e lui mi portò in giro a pranzo, per negozi, dimostrandosi sempre molto disponibile. Tanti anni fa incontrai in una festa la moglie e il figlio Luca. Mi sembra fosse la ricorrenza degli 80 anni della Roma, ma potrei sbagliare. Per me era un amico, non riesco ancora a capacitarmi come possa essere accaduto. Con i ragazzi di quella Roma, anche se ci siamo persi inevitabilmente di vista, è capitato di riparlarne. Soprattutto con Bruno (Conti, ndr) e Righetti. Ho rivisto tempo fa anche Pruzzo e Turone in occasione di un docufilm sul famoso gol di Ramon annullato nell’1981 che ci privò dello scudetto. Quando penso a loro c’è sempre tanto affetto».
Oggi è una Roma diversa rispetto alla sua. Ma la guida un ragazzo di 40 anni che lei dovrebbe conoscere bene.
«Sì, Daniele. Sono molto contento per lui. Ancora sorrido quando penso che proprio per gli 80 anni della Roma ci ritrovammo a giocare vicini in un’ esibizione. C’erano Totti, Cafu, Bruno, Pruzzo... Così prima del fischio d’inizio gli chiedo: “Come giochiamo?”. E lui, un po’ imbarazzato, mi risponde: “Me lo dica lei” (ride)».
Fantastico! Non si sentì un po’ invecchiato?
«Già e da quella serata sono trascorsi altri 17 anni. Sono del 53, faccia un po’ i conti ma non mi dica il totale».
Ha avuto modo di vedere la Roma sotto la gestione di De Rossi?
«Sì, in tv non mi sono perso la gara con il Brighton, le due con il Milan e la prima con il Leverkusen in Europa League. Le prime tre veramente giocate bene, quella con i tedeschi un po’ meno. Daniele è giovane, conosce la città, può lavorare più tranquillo rispetto ad altri. Sono felice che la società gli abbia dato fiducia. Ora però va messo nelle condizioni migliori. L’importante è che gli sia dato del tempo, anche se le cose inizialmente non dovessero andare come si spera».
È un caso che tanti centrocampisti poi si siano rivelati grandi allenatori?
«No, probabilmente perché riescono a vedere il gioco da dietro e quando poi smettono sono agevolati nel riproporlo. Non mi ha quindi stupito l’ascesa di Daniele. Tra l’altro ora che mi ricordo tanti anni fa ci parlai, lo incontrai in un negozio di abbigliamento a Casal Palocco. Io lavoravo per la televisione Globo e una collega mi chiese, o forse proprio Daniele fu a chiedermelo, in cosa doveva migliorare. Gli risposi che per me era forse troppo falloso. E migliorò anche in quel fondamentale, chiaramente non perché glielo dissi io ma poi è riuscito a laurearsi campione del mondo».
Cosa che a lei non è riuscita.
«Dovevamo vincere nell’82. Ma il calcio non è una questione di giustizia, è un gioco. Non abbiamo voluto snaturarci come ci chiese Telé Santana e l’abbiamo pagata. Pensi che Socrates aveva persino smesso di fumare. La nostra consolazione rimane che di quella squadra si parla ancora».
Difficile il contrario. Lei, Zico, Leandro, Junior, Eder, Cerezo, Socrates, Paulinho Isidoro...
«Eravamo fortissimi. Lo sa che mi disse una volta Zico? Paulo non potevamo farci nulla. Se avessimo segnato cinque gol, l’Italia ne avrebbe fatti sei».
Tornando alla Roma, le piace Dybala? E lo confermerebbe nella nuova squadra che sta nascendo?
«Per dare un’opinione devi vedere un calciatore giocare 7-8 partite di seguito, cosa che a me non accade purtroppo. Tecnicamente non si discute, si conosce, non è più un ragazzino. Ha un sinistro che funziona. Ma le valutazioni quando sei un dirigente sono molteplici e io preferisco restare un semplice tifoso».
Cosa farà Paulo da grande?
«So che è difficile ma mi piacerebbe tornare ad allenare».
In Brasile o in Europa?
«Va bene anche qui. Il treno fuori dal mio paese è passato tanto tempo fa. Potevo allenare la Roma due volte. Quella in cui ci andai più vicino fu con Viola. C’eravamo messi seduti a parlare con il mio commercialista ed eravamo d’accordo per un biennale. Poi il presidente si sentì male proprio in quella settimana e morì poco dopo. L’altra occasione arrivò con il presidente Sensi ma fu soltanto una chiacchierata allo stadio, senza seguito. Sarebbe stato bello, Roma rimarrà sempre nel mio cuore».