il Giornale, 3 giugno 2024
Il macabro voyeurismo dietro i casi di suicidio
«L’incidente è chiuso» (Vladimir Majakovski, 14 aprile 1930).
«Game over» (Franco Anelli, 29 maggio 2024).
E invece no: l’incidente non si chiude, il gioco non finisce. In settimane costellate da una serie impressionante di suicidi, diversi in tutto tranne che nella morte, l’appello a coprire la tragedia col silenzio resta inascoltato. Di rimando cade nel vuoto l’altro appello di Majakovski (e di Cesare Pavese): «Non fate pettegolezzi». Intorno al gesto estremo si chiacchiera, si ipotizza, si avanzano dubbi. E anche quando è chiaro che non c’è niente da chiarire, perché è lampante che non si tratta di un delitto, arriva a tirare la volata ai pettegolezzi l’inchiesta della magistratura. Atto dovuto, che per sua natura non ha riguardi, e che scava nei meandri che il suicida si è lasciato alle spalle.
Quattro morti, una dopo l’altra: un grande rettore universitario che dopo una telefonata si lancia dal sesto piano, un sindaco di un paese lodigiano che dopo un consiglio comunale piuttosto animato sale in ufficio e si impicca, il marito di una deputata che viene trovato in auto strozzato da una fascetta, una ragazza che dopo essere stata violentata in ospedale si uccide lanciandosi nel vuoto. Solo sul marito della deputata, la famiglia contesta che si tratti di suicidio, anche se tutte le evidenze escludono l’assassinio: ma anche questo è un dato ricorrente, la difficoltà dei sopravvissuti di accettare che un proprio caro si sia tolto la vita; di ammettere di non avere colto i segnali dell’inferno che giorno dopo giorno, dietro l’apparenza dei sorrisi, montava in petto al coniuge o al figlio; e da lì la tendenza a consolarsi immaginando complotti all’altezza della loro tragedia.
«Istigazione al suicidio»: è questa l’ipotesi che le Procure utilizzano per andare a frugare. Quasi sempre non si immagina davvero che qualcuno abbia fatto pressioni deliberate per convincere il vivo a diventare morto. Si vuole invece «capire cosa c’è dietro», vedere se una scelta tanto terribile abbia a monte altri fatti e magari reati, che non l’hanno causata ma che la spiegano. O che magari nemmeno la spiegano ma chissà, potrebbero comunque tornare interessanti. La formula in questi casi è già pronta: «Il suicidio di X ha squarciato il velo su», eccetera eccetera. E diventa irrilevante sapere se il suicida quel velo voleva aprirlo o chiuderlo per sempre.
Richiesta d’aiuto, protesta, richiesta di silenzio. Generazioni di psicologi si sono dedicati a catalogare il senso dei suicidi, senza venire a capo di molto. Ancora più improbabile che ci si arrivi per via giudiziaria: ma nel frattempo si sono analizzati tabulati telefonici, interrogati amici e nemici, svelate scappatelle, sezionati bilanci in rosso, si è frugato nel profilo psicologico del morto, la cui speranza di venire finalmente lasciato in pace non viene esaudita. Non accontentarsi delle apparenze è dovere dei poliziotti e dei pm, e verificare che un suicidio è stato davvero un suicidio è sacrosanto. Ma fermandosi poi lì, e ricordando sempre che la verità vera sul suo gesto la sa solo il morto.