La Stampa, 3 giugno 2024
Il Beatles mancato
È il 3 giugno del 1964, e nell’appartamento londinese di Jimmy Nicol suona il telefono. Dall’altra parte c’è un uomo che lui conosce solo superficialmente, e che pronuncia poche, concitate parole. È la telefonata che gli cambierà la vita. Il fatto che forse vi state domandando chi è Jimmy Nicol, però, significa che la vita gliel’ha cambiata solo in parte.
Per raccontare la sua storia, che è la storia delle grandi occasioni perse, dobbiamo partire da un fatto accidentale (l’abbiamo detto, si parla di occasioni e dunque di caso, coincidenze): poche ore prima una persona ha perso i sensi ed è stata ricoverata in ospedale con una tonsillite acuta. Quella persona è Ringo Starr. E l’indomani i Beatles devono partire per uno dei tour più importanti della loro carriera.
George Martin e Brian Epstein (loro invece sì, sappiamo tutti chi sono) precipitano nel panico. Annullare il tour è un’ipotesi impensabile, l’unica possibilità è trovare un sostituto. Allora a Martin viene in mente un ragazzo che ha appena conosciuto, un bravo batterista che ha suonato in un disco di cover dei Beatles. Si chiama Jimmy Nicol.
Ed ecco la telefonata.
Jimmy, ovviamente, accetta. Accetterebbe anche gratis, ma Epstein gli offre 2.500 sterline a esibizione più 2.500 di bonus. Ha un pomeriggio di tempo per diventare un Beatle: e ci riesce. Si taglia i capelli in stile mop-top, indossa l’abito di Ringo, impara le canzoni. Ventisette ore dopo, incredulo ma determinato, è sul palco dei Giardini di Tivoli, a Copenhagen. Parte She loves you: è l’inizio di una leggenda che però resterà piccola, privata. Il tour prosegue, Olanda, Hong Kong. Jimmy si gode la vita, le donne e le limousine. Il successo: è un Beatle. E durante le prove non si risparmia. Quando gli chiedono «Come va?» ripete compulsivamente: «It’s getting better», «Va meglio»: nel ’67 Getting better diventerà un pezzo di Sgt Pepper proprio in ricordo, dice Paul Mc Cartney, di quel ragazzo che per dieci giorni ha coltivato il sogno di diventare l’uomo più famoso del mondo, e non ce l’ha fatta.
È difficile e insieme facilissimo immaginare come si sente Nicol. Difficile, perché sta vivendo un’avventura eccezionale. Facilissimo, perché il sentimento che prova è universale: la speranza, l’illusione. Forse trova il coraggio di rivelare a se stesso che Ringo Starr non è poi un batterista così eccezionale. E nutre, da qualche parte, la fantasticheria che possa avvenire un miracolo.
Il miracolo, però, non avviene.
Ringo guarisce e li raggiunge in Australia. Jimmy è così depresso che non riesce a salutare nessuno: parte di notte come un ladro, mentre gli altri Beatles, quelli veri, dormono. All’aeroporto Epstein gli regala un assegno di 500 sterline e un orologio d’oro con la scritta: «Dai Beatles e Brian Epstein a Jimmy – con apprezzamento e gratitudine».
Di quei dieci giorni gli resta solo questo. E una frase, spietata, di John Lennon: «Tu sei migliore di Ringo. Ma purtroppo hai perso la nave». You missed the ship.
È irrilevante sapere com’è proseguita la vita di Jimmy Nicol: quando quel che sarebbe potuto succedere è così notevole, ciò che è davvero successo non importa. Importa, però, riconoscere il tratto universale di questa storia. Perché la sensazione di avere prima o poi perso la nave accomuna veramente tutti.
Ma qual è, per l’esattezza, questa sensazione? Come possiamo definire il sentimento di quando pensiamo a «cosa sarebbe successo se»? Sebbene sia così frequente e familiare, nella lingua italiana non esiste un termine per indicarlo. Forse perché la gamma di emozioni che include è troppo ampia, complessa.
C’è dentro, innanzitutto il rimpianto. Un afflato che, come nota Tiffany Watt Smith nel suo Atlante delle emozioni umane, ha in sé qualcosa di seducente poiché dipinge un’aura di possibilità intorno a quanto è andato in frantumi. Ci incanta e ci illude, racchiude una crudele scintilla di piacere e sollievo. Mentre, però, il rimpianto ha quasi sempre a che fare con la scelta, chi ha «perso la nave» si sente perso nel regno del caso, del destino. Quel che prova ha il sapore del pensiero magico, del fatalismo, e dunque di un’inevitabile, dolce rassegnazione: ciò che poteva essere e non è stato dimostra che la vita è molto più grande di noi. Ancora, il sentimento delle occasioni sfumate tocca le corde della delusione: la parola inglese rimanda proprio al concetto di appuntamento mancato («disappointment»), mentre quella italiana viene dal latino deludere, prendersi gioco. Perché sì, la realtà si fa spesso beffe delle nostre illusioni, e dunque c’è anche un retrogusto di autocommiserazione. Ci sentiamo vittima di un’ingiustizia, poiché siamo stati depauperati di una possibilità che ci spettava di diritto.
Infine, è un sentimento intriso di desiderio, quel tipo di desiderio nostalgico che proviamo per i luoghi sconosciuti, l’innato e umanissimo istinto di pensare che il più bello dei mari è quello che non navigammo. Tendiamo a credere che l’occasione persa sia sempre migliore di quella realizzata. Ed è un inganno della mente, quello che la psicologia cognitiva chiama bias di conferma: il processo per cui selezioniamo le informazioni ponendo più attenzione su quelle che rafforzano le nostre convinzioni e ignoriamo quelle che le contraddicono. Ci interroghiamo a sufficienza sui risvolti negativi di ciò che rimpiangiamo? Jimmy Nicol avrà prima o poi realizzato che, razionalmente, la sua vita è stata più longeva e probabilmente meno tragica di quella di John Lennon?
A proposito di questo, e delle navi perse o prese, viene allora in mente la celebre scena di Titanic in cui Jack Dawson esulta dopo avere vinto al poker il biglietto per imbarcarsi. A noi quella felicità pare struggente: perché, forse, l’altro sentimento per cui non esistono parole è la percezione di come la grande occasione possa, in maniera beffarda, trasformarsi in catastrofe