la Repubblica, 3 giugno 2024
Il testamento innominabile di Calasso
Negli ultimi mesi Roberto Calasso mise un punto definitivo sul senso del proprio lavoro di scrittore e lo chiamò Opera senza nome. Era un modo per rievocare e illuminare l’intera opera (11 volumi da La rovina di Kasch a La tavoletta dei destini) offrendola al lettore come una sorta di archivio-testamento. L’ Opera senza nome (edito da Adelphi) apre allo stupore inconsapevole dell’autore: «Se provo a pensare a quello che ho fatto, devo dire che certamente non sapevo mai quale sarebbe stato il prossimo passo». Un’Opera dunque priva di intenzionalità e tuttavia inevitabile. Provvisoria ma al tempo stesso necessaria. Ignota allo stesso autore, almeno nel disegno narrativo finale.
Apprendiamo così che le prime righe de Le nozze di Cadmo e Armonia (il libro che lo rese popolare) furono scritte al ritorno di uno dei suoi annuali viaggi in Grecia. Ka (il nome segreto di Prajapati) nacque su un treno in India. K (dedicato a Kafka) si alternava a L’ardore, come se un veggente vedico avesse la stessa enigmatica intensità dell’autore della Metamorfosi. E Alan Turing nell’ Innominabile attuale fosse un calco di Artemide neIl cacciatore celeste.Tanta disinvolta filologia su che cosa si fonda? Sul semplice fatto che Opera senza nome si compone dei resti di una storia segreta e infinita. Immagini raccolte in un disegno tutt’altro che preordinato; parole che variano e si ibridano dentro un edificio permanentemente in costruzione. Qualcosa, insomma, di immobile come l’Egitto e di mutevole e nuovo come Baudelaire auspicava. Possibile tenere insieme una così anomala costruzione? Possibile che l’estrema casualità del dettaglio si incastoni nel tutto armonioso di un’avventura letteraria fuori dal tempo? Due modi presiedono alle scelte di Calasso: la disinvoltura e la fisiologia. Entrambi definiscono la soglia del suo lavoro. La disinvoltura gli regala uno sguardo aperto e leggero, quasi un azzardo; la fisiologia controlla e realizza il respiro dell’ Opera, senza conformarla allo stile unico, alla gabbia del genere. Il passo saggistico si alterna così a quello del racconto e del romanzo, in una varietà di profili difformi (aforismi, lettere, scene teatrali, analisi, cronache, aneddoti) in grado di influenzarsi segretamente con il linguaggiomuto dell’analogia. Perché scrivere qualcosa sul già scritto? Paura di essere frainteso o piuttosto per ribadire quell’arte della connessione cui Calasso aspira? Ai suoi occhi La rovina di Kasch si sarebbe rivelata un vivaio per tutta l’ Opera. Nove anni prima aveva pubblicato L’impuro folle,preludio in cielo e agli inferi, all’ Opera. Con il presidente Schreber – un caso memorabile di schizofrenia analizzato per primo da Freud – si entra nel più sorprendente dei deliri, quello in cui la storia e il divino sciogliendo il patto millenario lasciano che l’ordine del mondo vada in pezzi.Quell’ordine entrò in crisi negli ultimi anni dell’Ancien Régime. Cronista di quella fine poteva essere tanto Talleyrand quanto Schreber. Un accostamento impensabile. Ma la visione che Calasso ha del tempo è anamorfica. Legge la storia da una superficie sulla quale tutto si osserva in un temposimultaneo di oggetti segnati dalla difformità. Egli respinge la visione di un passato come una linea piena e continua. Il passato, ai suoi occhi, torna a essere una successione di avvallamenti oscuri. Come oscuro ci appare il presente. Ospite inatteso compare nellaRovina di Kasch John von Neumann. Sorprende che nel 1983, fuori dagli ambienti informatici, spunti la parola “digitale”.Ovviamente non è lì a introdurre qualche vago discorso sui calcolatori, quanto per indicare su cosa si fondi una civiltà. La civiltà indiana, per esempio, raccontata neL’ardore, è la sola che abbia osato basarsi esclusivamente sul modo analogico. L’innominabile attuale – libro che segue di qualche anno – sonda un altro mondo (la società secolarizzata) che aspira all’esclusività digitale. Si tratta di un nuovo ideale di vita (l’ American Way of Life )che Adorno analizzò in Minima moralia, estendendolo a tutto l’Occidente. Nella società secolarizzata – il cui ultimo desiderio è la connessione totale – viene escluso non il sacro ma il rito sacrificale, cioè il modo di stabilire un contatto tra visibile e invisibile. La religione perde di forza, ma restano le sue distorsioni, le sue cruente follie, i suoi perversi fanatismi come mostra il terrorismo islamico. Anticamera della morte digitale.Calasso è sempre stato attratto dalla possibilità di accumulare racconti e materiali di ogni sorta e di celare il pensiero fra le righe della narrazione. Attraverso il demone dell’analogia scorgiamo in ogni suo libro altri libri passati e futuri. Ogni personaggio rinvia a un suo simile o dissimile; ogni storia è un filo che si ramifica in altre storie: l’arte del cucire e dell’ibridare sovrintende al suo gigantesco lavoro. Fino a farlo somigliare a una muraglia colorata, il cui disegno principale mostra che con la fine dell’era delle metamorfosi si sancì per sempre la separazione fra gli dèi e gli uomini.Senza alcun progresso siamo passati dall’età dell’ansia all’età della inconsistenza, frutto maturo della disintermediazione: tutto nel nostro mondo digitalizzato è ormai istantaneo e simultaneo. Attuale e innominabile. Inscritto sotto il segno del nuovo.Fu Baudelaire a interrogarsi su ciò che il nuovo stava imponendo e lo accostò ad altre due parole: modernità e decadenza. Erano parole ultime e definitive attraverso le quali balenava un’idea di estremo, che smentiva tutto quanto era stato fatto in passato. Così l’arte, strappata dall’antico, si fece leggera e frivola (come avrebbe indicato Tiepolo) per poi diventare sempre più incomprensibile. Contaminata da quell’“innominabile” essa fornì all’attuale l’alibi della prima volta. Fu Bazlen, rammenta Calasso, a parlare di “primavoltità”, di qualcosa che prima non c’era. L’ebbrezza per il nuovo non riuscì tuttavia a nascondere il carattere sinistro dell’originalità. Solo i sogni, a quanto pare, sembrano destinati a ripetersi.L’Opera senza nome risponde per un verso alla struttura circolare: ciò che troviamo alla fine è anche ciò che vi è all’inizio; dall’altro questo “eterno ritorno” è un aperto, un unicum, una primavoltità, appunto. Verrebbe da dire “un animale nella foresta”.Viviamo in un’epoca che sfugge tenacemente alla parola essenziale. Siamo entrati in una zona senza nome, ma dal momento che l’“indicibile” si è trasformato in mostruoso, si fa molta fatica a comprendere ciò che abbiamo perso. Alla fine la più penetrante delle emozioni che si prova alla lettura dell’Opera è avvertire ancora la presenza dell’ineffabile. Non c’è niente di irrazionale in ciò. Resta semmai la sfida di un uomo che attraverso il confronto aspro, ironico, sferzante, ma anche dolce, tenue, pietoso, ha cercato di affrontare le diverse faccedel “tremendo”.Scrive: “Nella società secolarizzata si esclude il rito sacrificale, il contatto tra visibile e invisibile”