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 2024  giugno 02 Domenica calendario

Intervista a Roberto Andò

Ha il tono, i tempi, il linguaggio, ricco ma non barocco, la struttura culturale di un uomo che potrebbe recitare pure Fra’ Martino Campanaro e renderlo affascinante, con dentro un mistero. E così Roberto Andò è uno dei pochi registi che negli ultimi anni è riuscito a spogliare la certezza del cinema in crisi, senza spettatori e senza confronto: il suo La stranezza ha rivelato la magia immutata di una storia racchiusa in un tempo ragionevole, non dilatata dalla serialità ottusa; oggi quella magia è nuovamente davanti alla macchina da presa, lui dietro, per il set de L’abbaglio con il triangolo Servillo, Ficarra e Picone traghettati nel 1860, nella Sicilia sconvolta da Garibaldi.
Con Servillo è sodalizio.
(Sorride) Scriveva Tolstoj: ‘Persone che hanno uno stesso destino’, ed è questo che accomuna in una certa fase della vita; con Toni siamo nati nello stesso anno, entrambi ci occupiamo di teatro, amiamo la letteratura e la musica. E siamo a quattro film insieme.
Oltre il sodalizio.
A Cannes ha dichiarato che di me gli piace che costruisco dei racconti morali: parto da un dato reale dentro al quale si insinua il racconto fantastico. Tutto questo alla fine ricostruisce una sorta di parabola.
Morale, non moralista.
Il moralismo non lo sopporto; il regista o lo scrittore non deve mai insegnare o predicare.
Ha esordito con Rosi…
Come assistente in Cristo si è fermato a Eboli; il suo è stato un cammino coerente, caso quasi unico nella storia del cinema; poi c’è un altro modo per affrontarlo: quello di Fellini che era totalmente cinico, ma profondamente appassionato.
Cioè?
Fellini raccontava verso l’interno e non verso l’esterno e sono plausibili entrambi i modi; oggi con il cinema è difficile proporre una sorta di lezione, invece bisogna portare lo spettatore dentro un mistero.
Lei è tra Fellini e Rosi.
Con Fellini sono stato assistente ne La nave va ed è un regista che in qualche modo mi continua a parlare prepotentemente; allo stesso modo Rosi è stato importante; (abbassa la voce di un tono) Rosi era interessato a rendere conto della realtà, l’altro impegnato sul fantastico, l’invenzione, la menzogna. Eppure nel modo di girare avevano qualcosa in comune.
Secondo Filippo Ascione, Fellini arrivava sul set quasi impreparato.
No, aveva tutto molto chiaro; però lasciava aperto un margine a un qualche cosa che arrivasse dall’esterno e che portasse dentro un alito di sorpresa.
Lei quanti ciak chiede?
Non ci sono regole; cerco un punto di equilibrio per scovare un qualche cosa che si manifesta; certe volte l’attore te lo dà subito; in altre ha bisogno di una procedura, magari sette, dieci o 15 ciak e improvvisamente appare.
A 15 anni era sul set con De Sica e la Loren. De Sica mostrava a ognuno la parte?
A tutti; ancora oggi ritrovo lì la fascinazione del genio.
Lei giovanissimo.
Era Il viaggio, suo ultimo film; ero assistente volontario, arrivato grazie a mia zia, amica della Loren; De Sica finiva di girare molto presto, andava a riposare, poi a giocare.
Il gioco, sempre.
Mi chiamava da parte: ‘Robertino, la conosci la duchessa Vattelappesca? Questa sera sono invitato al circoletto’; oppure: ‘Chi è il principe Tal dei Tali?’. Sempre così. Si organizzava.
Un suo classico.
Durante le riprese di quel film c’era Richard Burton perennemente ubriaco, quindi gli tremava un po’ il mento. E De Sica che aveva qualche difficoltà con i primi piani.
Soluzione?
Un giorno lo ha piazzato di spalle e Burton ha avuto una reazione stizzita: ‘Sofia ha il primo piano’. E De Sica, con un inglese meraviglioso, disinvolto, gli ha regalato una lezione per dimostrargli che l’uomo è più drammatico di spalle. Noi tutti immobili a guardare e ascoltare.
E Burton?
Irretito; è stata la più grande lezione sull’attore mai vista.
L’ha mai utilizzata?
Con gli attori ho un rapporto di amicizia, mi piacciono, mentre ci sono registi insofferenti.
Come Rossellini…
Lui li odiava, un po’ pure Antonioni; altri hanno dei timori, non sanno come trattarli. Mentre io vengo dal teatro.
Il teatro dà una chiave…
Bresson ripeteva: ‘L’attore porta qualche cosa che si manifesta’; per questo il regista deve mettere in condizione l’attore di rivelare il suo segreto e Fellini c’è riuscito con Mastroianni, Rosi con Volonté, Antonioni con tanti, tra i quali Nicholson in Professione: reporter. Lì Nicholson era nudo.
Ci vuole molta fiducia.
E delicatezza, amicizia, rispetto e la capacità di circuirli come mi ha mostrato De Sica.
Con Ficarra e Picone lo ha ottenuto.
Li ammiro da sempre, sono dei messaggeri della Sicilia con tutti i suoi paradossi stampati nello sguardo; dopo La stranezza ho provato il desiderio del secondo film perché sono anche degli attori che stimolano delle storie.
Un set famigliare.
Siamo arrivati a un punto in cui le cose si dicono con lo sguardo; stessa cosa con Toni; (torna a Ficarra e Picone) con me recitano in dialetto e quando li vedo o ascolto è come ritrovare casa, la Sicilia di quando ero bambino.
In un’intervista a Gnoli di Repubblica ha dichiarato: sono stato spesso molto solo. Mentre Servillo sul Fatto ha elogiato la noia…
I due aspetti vanno insieme; sono stato solo nel senso che mi sono isolato: mi piaceva leggere, preferivo un libro a giocare con i bambini; con un libro puoi convocare un mondo immaginario pieno di amici; a poco a poco questa condizione porta a saper elaborare la solitudine e combattere la noia. La lettura è l’antidoto alla noia.
Chi non legge?
Sono dei condannati alla noia e gli mancano delle vite.
Quali vite?
Quella di Anna Karenina, di Julien Sorel; non hanno vissuto i Tre moschettieri, non si sono mai confrontati con i turbamenti di Madame Bovary; senza di loro manca pure una conoscenza di sé; aveva ragione Flaubert: ognuno di noi ha qualcosa di Madame Bovary.
Per alcuni scrittori i classici non sono fondamentali.
Quando ho insegnato al Centro sperimentale, sono rimasto sbalordito perché all’esame di ammissione ho scoperto che molti giovani avevano visto pochi film; ognuno di noi ha il film folgorante che l’ha portato dietro la macchina da presa.
Il suo?
Tanti; per me è stato importante La sala della musica dell’indiano Satyajit Ray: lì ho capito che qualcosa dell’India è in Sicilia e l’ho rivisto prima di girare il mio primo film.
Il manoscritto del Principe.
Su Giuseppe Tomasi di Lampedusa e il suo tentativo di uscire dalla noia scrivendo un romanzo; ho conosciuto bene il dattilografo di quell’impresa culturale: Francesco Orlando, poi diventato un amico; personaggio strepitoso, uno dei grandi teorici della letteratura, professore alla Normale; quando ero giovane, d’estate, veniva ospite da mio suocero e a tavola ci regalava delle imitazioni irresistibili.
Da dattilografo si rese conto del capolavoro?
Sì, ma il loro è stato un rapporto difficilissimo: Tomasi di Lampedusa con lui fu crudele.
Come mai?
Perché era un borghese, quindi il principe manteneva la distanza; era la Palermo di allora, simile all’India delle caste.
Si ricorda quella Sicilia?
Frequentavo una scuola famosa, gestita dalle suore, e tra gli amici c’erano degli aristocratici: quando varcavano la soglia c’era sempre una suora che li appellava con “barone” o “principe” come se la Costituzione non avesse abolito i titoli.
Suo nonno paterno era comunista.
Ero l’unico tra i miei amici con un nonno così; era medico e dava certificati per imboscare i partigiani; e poi era una figura singolare con una gran biblioteca; ho ereditato una scrivania e a un certo punto, dopo dieci anni, l’abbiamo restaurata: il restauratore l’ha smontata e si è accorto di un cassetto segreto…
E dentro?
Nonno era stato Commissario per l’epurazione e in quel cassetto ho trovato un quaderno con tutti i suoi giudizi rispetto alla borghesia palermitana; dopo un nome magari aveva aggiunto un “mafioso e corrotto” o “schifoso”; a un altro “corrotto, viscido, fa finta di essere democratico”; alcune di quelle famiglie le conosco bene.
Quante storie personali entrano nel lavoro?
Secondo Freud i primi dieci anni di vita sono decisivi; io credo i primi 15; intorno a quei 15 anni costruisci il resto.
Respinge mai i suoi 15?
Sono nell’età in cui mi interessa in maniera maniacale fissare la memoria; (pausa, tono bassissimo) il compito di chi scrive o realizza un film è quello di fermare il tempo.
Da regista, urla?
(Immediato) Sì, cerco di mantenere tutto sul piano della passione, dello stimolo, dell’amicizia, ma in certi momenti i nervi sono scoperti e devi urlare, anche se mi dà fastidio.
Come reagiscono?
Terrorizzati, ma serve a ristabilire un ordine; in un certo senso il regista è un padre.
O uno psicologo.
Alterna le due funzioni; per Fellini era anche una pozione magica. Quindi padre, mago e psicologo.
Ha vinto molti premi. Quanto contano?
Danno la percezione che sei capito e aiutano per i film più complessi; possono però creare un malinteso.
Quale?
Che sei arrivato; bisogna sempre mantenere il disincanto.
Lei come attore.
Non lo so, mi sono sempre rifiutato, ma so recitare le parti.
Perché si è rifiutato?
Non mi va di espormi; ora userò un’espressione terribile: mi piace la posizione di chi manipola e non di chi è manipolato; (pausa) poi penso a una personalità come quella di Toni: è un creativo, ti suggerisce delle chiavi, un po’ come Volonté.
Con Volonté ha lavorato.
Sono stato amico; persona meravigliosa e l’ho conosciuto sul set di Cristo si è fermato a Eboli; aveva un metodo suo di immersione nella materia.
Immersione totale.
In quel film non impersonificava Carlo Levi, era Carlo Levi. E quando Linuccia Saba vide il film rimase senza fiato: ‘È lui’.
Non staccava mai.
Neanche il sabato o la domenica: magari andavamo a cena fuori, ma davanti avevo sempre Levi. Toni ha la stessa capacità di concentrazione.
Anche lui resta nel personaggio.
Per La confessione iniziò a mangiare le noci, poche, o cibo da monaco; questo lavoro interiore contribuisce a creare e a rivelare il ruolo; solo i grandi attori vanno incontro alla rivelazione: riescono a reincarnarsi.
Di Volonté si parla di grandi capacità, ma pure di grande caratteraccio.
Con me no; per qualche tempo ci siamo persi di vista, poi Coppola mi coinvolse nel Padrino III e lo accompagnai a Palermo per un incontro con Gian Maria: gli voleva proporre un ruolo, quello poi andato a Raf Vallone. Volonté fu molto scorbutico, ostile con Coppola: non voleva accettare, quindi iniziò a porre questioni e richieste assurde.
E lei?
Ero imbarazzato, perché poco prima ci eravamo abbracciati affettuosamente; ma Coppola lo capì, conosceva la sua forza.
A Cannes hanno presentato il film Maria sulla Schneider e le accuse di violenza per Ultimo tango a Parigi.
Sono stato molto amico di Bertolucci e mi riesce difficile pensarlo oggi come qualcuno che può aver ferito la Schneider o può averla portata a recitare qualcosa che le è rimasto in profondità, come una minaccia; sulla vicenda ho sentito versioni diverse e non è una materia in cui si può essere giudici; oggi non avrei girato quella scena, non credo in quel metodo.
Che metodo è?
Rosi raccontava che in Salvatore Giuliano, per la scena della madre che trova il cadavere del figlio, aveva scelto una donna che da poco aveva realmente perso un figlio; lui non le disse nulla, non le spiegò la scena. La fece entrare nella stanza, con la macchina già pronta, facendola trovare davanti al cadavere. Iniziò a piangere, disperata. Ed è una delle sequenze memorabili.
Terribile.
Questo modo di girare era nell’aria; forse tutto il film di Rosi era il tentativo di far rinascere una storia, di dare voce ai sopravvissuti. Di risveglio con una seduta quasi di psicoterapia; anche quando girò a Portella della Ginestra, quasi tutti quelli coinvolti nelle riprese avevano un figlio ammazzato…
Nel caso di Bertolucci?
È un’altra situazione e c’entra la violazione dell’intimità: è un aspetto che nessuno potrà mai capire e non si può mettere in piedi un processo postumo.
Lei chi è?
C’è una frase di Stendhal: ‘Ho fatto cinquant’anni ma non ho ancora capito chi sono’.