la Repubblica, 2 giugno 2024
Aggiungi un podio a tavola Parigi 2024 mangia sano al bando alcol e patatine
Il pranzo di Babette? Con le quaglie en sarcophage dopo il brodo di tartaruga? Ma per carità, no. La cuoca del presidente con i tartufi del Sarladais detti i “diamanti neri” che tanto piacevano a François Mitterrand? Macché. Le boeuf Bourguignon di Julie&Julia? Proprio non ci siamo, cambiate film per Parigi 2024. E cambiate tavola, ormai si apparecchia con una nuova parola: game changer. È un’espressione che va molto di moda, significa punto di svolta, inversione di tendenza, qualcosa che resterà nella storia. Si può dire in un altro modo? Sì, sicuro: niente patate fritte a Parigi 2024. Chiaro, no? Fanno male, sono insalubri. Gli chef olimpici hanno deciso che nella mensa del villaggio non saranno nel menu. Si chiamano french fries? E allora? Gli atleti devono mangiare bene: meglio hot dog vegetariani, patate dolci con hummus, melanzane grigliate, falafel di barbabietola. Sono Giochi del 21° secolo, il pianeta è surriscaldato, anche lo sport deve fare la sua parte. Fregarsene dell’ambiente non fa vincere medaglie. Anche a tavola è bene essere responsabili, meglio le proteine vegetali che il cassoulet (Mura porta pazienza). Charles Guilloy e Stéphane Chicheri, i due cuochi della mensa olimpica che servirà 45 mila pasti ai 15 mila atleti, hanno scelto così. Naturalmente niente foie gras, perché le povere oche vengono ingozzate e trattate male, e niente avocado perché «arrivano da troppo lontano». L’egoismo del palato non è portata olimpica. Anche se chef Chicheri tranquillizza: «Serviremo 500 diversi piatti, non mancheranno i formaggi francesi, le baguette e la blanquette di vitello. Ma niente tartare di carne e sanguinaccio». E se qualcuno arrivato dalle isole Cook o dalla Mongolia con la fissa del cochon si mettesse a implorare in ginocchio una choucroute alsaziana: maiale salato e zampa, pancetta, fegato di manzo, salsicce bianche di Strasburgo, crauti bianchi, grasso di oca, cipolle, patate, brodo di carne? «No, nessuna eccezione». Banditi anche piatti e forchette non compostabili. Zero sprechi. L’80 per cento degli ingredienti viene dalla Francia e il resto è nel raggio di 300 chilometri. Peccato che la mascotte, ma quella non si mangia, sia made in China. Per offrire diversità nella cucina del villaggio si alterneranno tre chef: Alexandre Mazzia, tre stelle Michelin, cresciuto nella Repubblica Democratica del Congo, Akrame Benallal che ha trascorso i primi 13 anni della sua vita in Algeria e Amandine Chaignot, 45, nata a Orsay, a sud di Parigi, dove ha un ristorante che serve le migliori cosce di rana della capitale. Il suo menu olimpico: croissant con uovo e crema di carciofi, formaggio di capra e tartufi, pollo agli scampi. La cucina francese è il soft power della Francia, impiega 800 mila persone con un settore enogastronomico che genera 55 miliardi all’anno. Questo s’era già capito altrimenti la regina Maria Antonietta non avrebbe perso la testa per quella frase sulle brioche. «I regimi passano, la cucina resta», diceva Charles-Maurice de Talleyrand, ex ministro esteri e degli interni francese nel film A cena col Diavolo dopo aver mangiato salmone à la royale, filetti di pernice e aver bevuto cognac. Deve essere vero se Alain Ducasse, lo chef più stellato del mondo, che servirà i Capi di Stato il giorno dell’inaugurazione, ci ha tenuto a dire: «L’alta gastronomia è nel nostro Dna, ma la sfida internazionale ci impone alcuni adeguamenti, anche se per la cena della cerimonia mi è stato richiesto di preparare del vitello». I grandi dello sport a mangiare sano, quelli della terra invece a godere dei piaceri della carne, in senso letterale.
Una volta la mensa olimpica era luogo di scoperte e di perdizioni. La pretty baby della ginnastica Nadia Comaneci, primo 10 della storia, a 14 anni a Montreal ’76 si accorge che l’ananas non nasce in scatola, ma è proprio un frutto. «E chi lo sapeva? In Romania facevamo la fila alle quattro di mattina: sugli scaffali c’erano solo maionese, mostarda e fagioli. In mensa vidi per la prima volta la pizza, i cereali, il burro di arachidi, i fiocchi di latte. Prodotti di cui io non conoscevo l’esistenza, in più erano gratis, mi si aprì un mondo». Un mondo libero, molto free: carbon, meat, sugar, plastic free.Vabbè direte, almeno si potrà stappare qualche bottiglia nel paese dove una vedova di 27 anni, Barbe Nicole Clicquot, e un abate, Dom Perignon, di un monastero benedettino hanno trovato e dato consolazione al mondo con lo champagne. Macché, alcol vietatissimo, negli stadi e al villaggio. Saranno Giochi analcolici. Anche se il miglior saltatore in lungo francese ha un cognome da bollicine, Pommery. Dopo aver preso in giro i paesi arabi perché nello sport festeggiano con l’acqua di rose e i monarchi del Qatar che nell’ultimo Mondiale se ne infischiarono se una birra famosa era sponsor Fifa e vietarono l’alcol, ora anche l’illuminatissimo mondo occidentale mette al bando wine beer and spirits. Alcol free, ci mancherebbe. Anche sulle tribune del Roland Garros è appena scattato il divieto, troppi tifosi maleducati (ma per una birretta?), così la direttrice Amelie Mauresmo ha detto basta. «Va bene l’entusiasmo e mostrare le emozioni, ma i giocatori vanno rispettati». Ai Giochi nelle suites e nei palchi degli sponsor però le bottiglie non mancheranno, perché le celebrities hanno i loro privilegi e perché come osservava Ernest Hemingway: «Il ricco quando beve è uno che regge l’alcol, il povero invece è un alcolista».L’educazione alimentare nello sport è sempre più importante. Già a inizio anni 80 Carl Lewis si professava vegetariano tanto che, quando nell’83 la cecoslovacca Jarmila Kratochvilova sconvolse il mondo con due record negli 800 e 400 metri, gli americani che stavano preparandosi per i Giochi di Los Angeles andarono a trovarla nel suo paese. Sapevano che era figlia di contadini e che abitava in campagna. Magari il segreto del suo strapotere fisico era nella nutrizione, nelle qualità di qualche pianta, meglio indagare. Jarmila la raccontò così: «Una tv statunitense venne a filmarmi a casa, erano interessati alla mia dieta, al mio ambiente, ma io stavo uccidendo il maiale con mio zio, non potevamo mica rimandare, e loro insistevano. Spiegai agli americani che prima sparavamo al maiale, poi lo sgozzavamo e raccoglievamo il sangue, perché non coagulasse. Tra birre, vodka e altri liquori. Fuggirono inorriditi, commiserandomi per la mia bestialità, qualcuno mi dette della poveraccia. Ma io il maiale lo mangiavo anche a colazione e facevo i record».Così Parigi 2024 cambierà colore.Mon Dieu, tornasse Edith Piaf le toccherebbe rinunciare a La Vie en Rose per quella en Green.