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 2024  giugno 02 Domenica calendario

Le lettere degli italiani al Quirinale


Nell’archivio storico del Quirinale è conservata la voce degli italiani, di tutti i cittadini, senza esclusioni di sorta. Come se nelle lettere al Presidente trovasse finalmente attuazione l’articolo più impegnativo e meno ascoltato della Costituzione, quello secondo il quale siamo tutti eguali, «senza distinzione di sesso, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
E gli italiani, da svariati decenni, danno mostra di saperlo o, quanto meno, di sentirlo con il cuore. Mostrano di sapere che quel signore spesso canuto, che magari fa anche un po’ fatica a stare ritto sull’attenti, è il garante della Costituzione e quindi dei loro diritti, delle loro speranze, di un progetto di vita dignitoso.
Tutti scrivono al Presidente. Uomini e donne, specie madri e vedove in cerca di giustizia. Anche moltissimi bambini, capaci di scartavetrare con la loro innocenza le vuote cerimonie del potere. E bene ha fatto la storica Michela Ponzani a restituirci queste grida sommerse in un libro che raccoglie lettere, suppliche, appelli, richieste di grazia e di aiuto, spediti nell’arco di mezzo secolo nella grande casa del Quirinale, dall’era Pertini a Mattarella (fino al 2020). Con un’incursione in un fascicolo relativo all’assassinio di Moro che anticipa la datazione alla presidenza Leone (Caro Presidente, ti scrivo. La storia degli italiani nelle lettere al Quirinale, Einaudi).
Il termine di partenza è quasi obbligato, essendo stato il Presidente partigiano il sovvertitore dei rigidi codici quirinalizi con uno stile molto diretto, a tratti imprevedibile. E non sorprende che sia stato proprio Pertini a valorizzare la corrispondenza con la gente comune, cresciuta enormemente sottoil suo settennato. Le lettere raccontano cinquant’anni di storia italiana, con i suoi traumi e le sue ferite. Le stragi neofasciste. Il terrorismo rosso. Le macerie dell’Irpinia. Le donne violate. La macelleria a Genova durante il G8. La tragedia dell’immigrazione. Le classi dirigenti non ne escono sempre bene – tra amministratori incapaci, pezzi dello Stato colluso, una politica spregiudicata – ma colpisce la sensibilità civile degli italiani pronti a rivolgersi al supremo garante della Carta ogni qualvolta avvertano il rischiodi una torsione autoritaria. «Il Quirinale è silente ma non assente», risponde la segreteria di Carlo Azeglio Ciampi a una madre disperata per il comportamento della polizia nella caserma di Bolzaneto. Era il luglio del 2001, Berlusconi a Palazzo Chigi.
È un’Italia molto diversa dall’attuale quella che viene fotografata nelle lettere al Quirinale. Meno rancorosa, più consapevole della sua storia democratica. Si prova quasi nostalgia per un Paese che reagisce con straordinaria fermezza all’attacco terroristico ma si guarda bene dall’invocare la forca. Tra tante missive colpisce quella di un sindacalista della Breda, Giancarlo Niccolai, che sul finire degli anni Novanta ancora porta sulla gamba i segni delle pallottole di Prima Linea. Avrebbe tutto il diritto di opporsi alla grazia concessa ai terroristi dal presidente Scalfaro e invece gli chiede clemenza. «Hanno già fatto quindi anni di carcere. E c’è bisogno di consegnare alla storia un drammatico momento della nostra Repubblica». Non c’è spazio per sentimenti vendicativi in un Paese ancora convintamente antifascista, mosso più dalla fame di verità storica che dall’odio per gli ex nemici. La richiesta dei post-fascisti di equiparare partigiani e militi di Salò spinge Costantino Peli a rivolgersi accorato a Ciampi: «Noi partigiani abbiamo combattuto per avere la pace, la libertà, la democrazia. Non abbiamo ucciso donne e bambini, non abbiamo fatto stragi a danno della popolazione». Ed è sempre il Presidente della Repubblica a rimettere i fatti della storia nella giusta prospettiva, senza confusioni né opacità. Allora come oggi.
Attraverso le lettere al Quirinale si compone nitidamente il ritratto del Presidente, vissuto come figura super partes che unisce la nazione, non la divide. Che vigila sugli errori di chi governa. Che colma con parole di verità i le omissioni colpevoli di chi nasconde il passato, come è accaduto pochi giorni fa nell’anniversario della strage neofascista di Brescia. E nella sfortunatissima Italia che esulta perché Giorgia Meloni attribuisce allo squadrismo fascista il delitto Matteotti – a chi altri avrebbe dovuto attribuirlo? – bisogna ascoltare Mattarella che su quell’assassinio politico ha detto in questi anni molto di più, fedele a una verità storica che la presidente del Consiglio s’è guardata bene dal richiamare: è nel sangue di Matteotti che affonda le radici la dittatura di Mussolini, il mandante delle squadracce di Dumini, una paternità che il neofascismo ha sempre negato perché accogliendola avrebbe dovuto riconoscere l’origine criminale del regime.
Una figura ingombrante è dunque quella dell’inquilino del Quirinale, che la destra populista vuole neutralizzare riducendone magistero e poteri e, in prospettiva, rimpicciolendolo a espressione di parte, di una sola parte, quella che vince. Chissà se nelle lettere al presidente Mattarella di questi ultimi mesi ci sia traccia della preoccupazione degli italiani. Speriamo, in futuro, di poterle leggere.