la Repubblica, 2 giugno 2024
Riaprono le Giubbe Rosse
FIRENZE – Tra una vineria e un’osteria il cui nome – “La Bistecca” – dice tutto sulla deriva turistica del centro storico di Firenze, il bandone delle Giubbe Rosse, in questi giorni alzato di poche decine di centimetri, lascia intuire solo alcuni dettagli. Bastano, però, a risvegliare ricordi e atmosfere d’altri tempi, di una città che non c’è più. Il solido bancone, la boiserie alle pareti, il pavimento a intarsi. Per vedere il resto del celebre caffè letterario fiorentino di piazza della Repubblica si dovrà pazientare ancora un po’. La tanto attesa riapertura è fissata per metà mese e restituirà alla città, dopo cinque anni, un luogo simbolo della cultura italiana del Novecento, quartier generale di intellettuali e artisti, che hanno attraversato la storia e i movimenti, fondando riviste, accendendosi in animate discussioni e guardando sfilare tra i tavolini eleganti camerieri in livrea fiammante.
«Andiamo da quelli delle giubbe rosse» dicevano i fiorentini che trovavano difficile pronunciare Reininghaus, il nome dei due fratelli tedeschi, fabbricanti di birra, che compariva sulla bellissima insegna di legno massiccio, sormontata da un angelo, a incorniciava le due vetrate d’ingresso.
Il locale era stato inaugurato nel 1897 ed era subito diventato meta della comunità tedesca di Firenze. La piazza, all’epoca intitolata a Vittorio Emanuele II, era il simbolo della nuova Firenze, seconda capitale del Regno d’Italia, che si era rifatta il trucco demolendo l’antico ghetto ebraico a favore di una piazza ampia e circondata da palazzi signorili. In quel salotto buono, nei primi anni del Novecento, i caffè divennero importanti laboratori di cultura. E le salette delle Giubbe Rosse, sempre ben fornite di quotidiani e di riviste internazionali, furono sicuramente le più importanti. Qui iniziarono a darsi appuntamento le avanguardie, il gruppo di “Lacerba” e “La Voce” di Giuseppe Prezzolini. Sempre qui arrivò, in tempo reale, la potenza incendiaria del“Manifesto” di Marinetti, che un entusiasta Giovanni Papini portò ad Ardengo Soffici. Ma sugli accoglienti divani della saletta interna, c’era sempre Aldo Palazzeschi, taciturno e sorridente. Storico lo scontro tra Soffici e il pittore Umberto Boccioni, venuto da Milano per reagire a una recensione negativa del primo: volarono tavolini e schiaffi ma, alla fine il gruppo fiorentino aderì al Futurismo.
Una data centrale per le Giubbe Rosse è il 1926. In quell’anno, tre giovani studenti (Alberto Carocci, Giansiro Ferrata e Leo Ferrero) dettero il via all’esperienza di “Solaria”, rivista di respiro europeo, che ebbe un ruolo decisivo tra le due guerre. Memorabili furono gli anni che precedettero la Seconda guerra mondiale, quando qui si potevano incontrare Vasco Pratolini, Mario Luzi, Elio Vittorini, Alessandro Bonsanti, Umberto Saba, Ottone Rosai, Eugenio Montale. Il clima però stava cambiando, iniziarono i primi arresti e le Giubbe Rosse vennero chiuse. Il caffè, quartier generale delle truppe americane, riaprì nel 1947. Sulla piazza, diventata “della Repubblica”, ricomparvero i tavoli ni e una nuova ondata di artisti e intellettuali, tra questi Dylan Thomas ed Ezra Puond.
Seguirono anni di lenta ma inarrestabile decadenza. Nel 1991 il caffè passò sotto una nuova gestione che si impegnò a riportare cultura e vitalità nelle salette, anche attraverso collaborazioni importanti come quelle con Tommaso Paloscia, Cosimo Ceccuti e Il Gruppo di Quinto Alto con il suo coordinatore Vittorio Biagini.
La storia recente si interrompe cinque anni fa con un fallimento, tre aste andate a vuoto e il passaggio al gruppo Scudieri, nella cui compagine societaria compare anche il magnate kazako Igor Bidilo, coinvolto in un’inchiesta per autoriciclaggio. Un nuovo capitolo ora è tutto da scrivere. Il locale, dopo gli interventi di restauro svolti sotto l’occhio attento della Soprintendenza, tornerà a mostrarsi nel suo antico splendore, con il suo patrimonio di cimeli, fotografie d’epoca, stampe e dipinti. Gli affreschi sono stati restaurati e gli arredi fissi mantenuti. «Si tratta di un immobile vincolato che ha una storia significativa – spiega la soprintendente Antonella Ranaldi – quindi era importante che questa memoria venisse conservata e che quello spirito rimanesse».