Corriere della Sera, 2 giugno 2024
Milano ha un debto con Scerbanenko
Se di un giallo è vivamente sconsigliato rivelare il finale, lo stesso non vale per un libro che parla di un giallista. Soprattutto se le ultime pagine contengono un messaggio importante, un appello che merita di essere subito reso noto, condiviso e sostenuto. È il caso del volume Scerbanenco a Milano (Paesi Edizioni) del giornalista Alessandro Trocino. L’autore affida all’ultimo capitolo la richiesta che Milano renda finalmente omaggio al padre del noir italiano: «Una targa, una statua, un giardino», sollecita Trocino. E aggiunge: «Sarebbe bello che i tanti scrittori che si sono innamorati della sua opera e che vivono e lavorano in città provassero a farsi portavoce di un movimento per dare a Scerbanenco quel che è di Scerbanenco».
Rilanciato il sasso lanciato da Trocino (Milano, 1965) facciamo un passo indietro, all’inizio del libro che è, per ammissione dell’autore, una «esplorazione scerbanenchiana» e anche una «ricognizione sentimentale»; il materiale è strutturato in diciotto capitoli ognuno rimanda a un luogo della città (o dell’hinterland) significativo nella geografia personale e letteraria del giallista; ognuno sviluppa temi, personaggi e storie.
Nato a Kiev nel 1911, Giorgio Scerbanenco arriva a Milano a sedici anni, fa mille lavori (barelliere, tornitore, magazziniere...) e intanto scrive racconti: negli anni Trenta è costretto a impegnare il paltò e vendere la macchina da scrivere per tirar su qualcosa; negli anni Quaranta la ruota gira e avvia una prestigiosa collaborazione con il periodico culturale del «Corriere della Sera», «La Lettura» (sorella maggiore de «la Lettura» rinata nel 2011), lì firma trentotto racconti e due romanzi brevi. Rifugiato in Svizzera durante l’occupazione tedesca, torna a Milano nel 1945 all’indomani del 25 aprile: la Rizzoli lo chiama alla direzione dei femminili «Novella» e «Bella»; collabora con «Annabella»; per queste riviste cura anche la rubrica della Posta del cuore, finestra di dialogo con i lettori, prevalentemente lettrici, fonte di spunti, idee, stimoli.
Al giallo si avvicina sempre negli anni Quaranta con la serie poliziesca dedicata al personaggio di Arthur Jelling, archivista della polizia di Boston, ma è con la quadrilogia di Duca Lamberti (Venere privata, Traditori di tutti, I ragazzi del massacro, I milanesi ammazzano al sabato, tutti usciti in una manciata di anni tra il 1966 e il 1969 da Garzanti) che cambia tutto. A partire dall’ambientazione: l’investigatore, ex medico radiato dall’ordine per aver praticato l’eutanasia, si muove in una Milano che fino ad allora non esisteva, che non si era mai vista. La città che Scerbanenco inventa è «sulfurea e adrenalinica, nera e convulsa». Vera, al passo con i tempi; dentro ci sono gli oggetti del boom e del divertimento, ma anche quelli dell’alienazione e del disagio. Il linguaggio è colorito, crudo, scorretto: nella scelta dei vocaboli si può, suggerisce Trocino, ritrovare lo stesso anelito di verità delle storie: la forza della quadrilogia «sta nell’assumere il punto di vista dell’uomo qualunque, nel mettersi al fianco dell’uomo della strada». La violenza «tarantiniana» trova giustificazione nel fatto che Duca è un buono che fa il duro, è una contraddizione vivente, così come sono contraddittori la sua visione della donna e della morale, il suo sguardo su giustizia, bene e male.
Trocino – giornalista al «Corriere della Sera», già cronista parlamentare oggi scrive di politica e società – fiuta e segue come un detective le tracce lasciate in città e nella letteratura dallo scrittore; incontra amici, familiari, la figlia Cecilia, custode dell’eredità letteraria, e il figlio Alberto, che vive in Svizzera e ha mantenuto nel cognome la «k» originale (Scerbanenko); parla con chi lo ha studiato, tra i primi Gianni Canova, critico cinematografico, oggi rettore della Iulm, che sull’opera dell’autore di noir aveva scritto la tesi di laurea tra «moltissime difficoltà» perché «la narrativa di genere era ancora un tabù»; raccoglie le confidenze di chi lo ha letto e sostenuto: lo scrittore Carlo Lucarelli, tra i primi a fine anni Novanta che riuscì a «sfondare il muro della distrazione e della diffidenza» e a far conoscere l’autore alle nuove generazioni; poi i colleghi Piero Colaprico e Luca Crovi. Scava nel passato, ritrova il mea culpa di Indro Montanelli («Scerbanenco valeva molto di più della quotazione, cioè della non quotazione che la critica gli assegnava nella borsa dei valori letterari» scrisse all’indomani della morte nel 1969); la lungimiranza di Camilleri, che nel 2003 gli riconosceva il merito di avere insegnato agli scrittori «come guardare con occhi assolutamente sprovincializzati la città e il suo tessuto sociale».
Ne esce un ritratto composito, vibrante, in divenire; Trocino fa dialogare le opere con il loro tempo e il nostro, mette in luce la capacità dell’autore di cogliere il cambiamento di un’epoca, una città, un genere.
E se è vero che Scerbanenco – che nel 1968 otteneva in Francia il prestigioso Grand prix de la littérature policière (ancora oggi è l’unico italiano premiato) – attende ancora al di qua delle Alpi un pieno riconoscimento del suo valore, la scelta di riportare in libreria molte sue opere, alcune ormai introvabili (per La nave di Teseo, con la cura della figlia Cecilia), è un passo in avanti per far crescere il popolo dei suoi lettori ed estimatori. E chissà, magari cambiare il finale del libro di Trocino trasformando l’appello in azione.