Corriere della Sera, 2 giugno 2024
L’ex ministro Cho Kuk torna alla ribalta per affossare il presidente che lo aveva «rovinato»
Squid Game o House of Cards? Lotta mortale o colpi proibiti alle spalle? Corea o Stati Uniti? Per Cho Kuk, 59 anni, uomo di gran fascino, alto 1,82 – il suo profilo si staglia facilmente sopra la media del suo Paese – ex consigliere e ministro della Giustizia con il presidente Moon Jae-in, la vita deve essere sembrata un misto delle due fortunate serie di Netflix, e il suo ritorno in scena dopo una serie di disgrazie (politiche) la quintessenza del trionfo sul fil di lana, emblema dell’americanità.
La sua storia è semplice quanto appassionante. Raccontarla apre uno spiraglio sulla realtà di un Paese che da anni stupisce il mondo con la sua produzione – culturale e industriale – ma appare schermata da un velo di incomunicabilità dovuta a lontananza e tradizione.
Nato a Busan, nel Sud coreano, Cho è presto emerso come uno tra i più brillanti studiosi di legge, in prima fila nel movimento di rinnovamento seguito alla triste epoca della dittatura militare. Vicino al presidente Moon Jae-in – esponente della sinistra liberale – il giovane politico si è dato molto da fare per favorire altre personalità di rilievo, per dare una «spinta» concreta al desiderio di uscire dall’ingessatura delle famiglie e delle dinastie che rendevano la scalata al potere una questione per pochi intimi.
Fu così che l’attuale presidente sudcoreano, Yoon Suk-yeol fu da lui favorito per il posto di procuratore generale a Seul. Cho, nel frattempo, era diventato ministro della Giustizia e, probabilmente, preparava una futura successione al suo mentore, Moon Jae-in.
Il ritorno
Cho, rientrato in corsa, è stato eletto deputato dopo aver fondato un nuovo partito
Ma come è accaduto in tutti i luoghi in tutte le epoche, dalle cospirazioni della Roma imperiale agli intrighi delle corti europee così ben descritte da Shakespeare, amicizia e riconoscenza non sono cose da uomini in politica. E Yoon, con il potere dell’accusa tra le sue mani, a partire dal 2019 ha cominciato ad aprire inchieste su tutti gli uomini di potere, in particolare su coloro che lo avevano favorito e/o potevano costituire un ostacolo (reale o immaginato) al suo desiderio di ascesa: «Non c’è belva tanto feroce che non abbia un briciolo di pietà. Ma io non ne ho alcuno, quindi non sono una belva» (Riccardo III).
La non-belva Yoon, prima di diventare lui presidente proprio grazie all’inchiesta aperta contro i «potenti nei palazzi», è riuscito a rovinare la vita di molti. Per primo Cho Kuk, il cui nome in coreano significa curiosamente «Madrepatria». Per farlo gli è bastato mettere sotto inchiesta la moglie, «colpevole» di aver falsificato i documenti necessari alla figlia per entrare all’università, oltre ad altre accuse minori, come investimenti poco chiari in fondi privati. Risultato: lui, Cho Kuk, ha perso immediatamente il posto ed è uscito dai riflettori nazionali mentre la consorte finiva in carcere dove sarebbe rimasta tre anni. La figlia? Fuori da università e professione. Nessuna pietà, appunto, siamo politici.
Ma anche nei Paesi più compassati la vendetta è un piatto che si serve freddo. Cho, rientrato in corsa, è stato eletto deputato dopo aver fondato un nuovo partito. Dal suo scranno ha gridato allo scandalo contro la moglie di Yoon, e le sue spese folli: la first lady Kim Keon-hee – affascinante 51enne – aveva accettato in regalo una costosissima borsa di Dior scatenando l’ira dei benpensanti e, soprattutto, dei maggiorenti del partito di Yoon, preoccupati delle ricadute politiche dello scandalo.
Ora Cho Kuk dice che «tre anni sono troppi»: sono quelli che rimangono al presidente prima delle prossime elezioni: ci arriverà?