Corriere della Sera, 2 giugno 2024
Netanyahu al Congresso più volte di Churchill
Se all’invito aggiungeranno la data, Benjamin Netanyahu diventerà il leader straniero ad aver parlato per più volte davanti al Congresso americano in seduta plenaria. Per ora detiene il record con Winston Churchill (nel 1941, 1943, 1952), il primo ministro britannico del quale è un attento e ammirato lettore, i sei volumi di «La Seconda guerra mondiale» sono lo sfondo dei suoi proclami alla nazione dall’ufficio a Gerusalemme. In fondo alla lettera c’è anche la firma del senatore Chuck Schumer nonostante qualche mese fa avesse invocato le dimissioni del premier israeliano. Altri democratici hanno già detto che non ci saranno, se l’evento verrà confermato: Bernie Sanders ha annunciato il boicottaggio, come l’ala più a sinistra nel partito.
Sono stati i repubblicani a macchinare per la convocazione, subito accettata dal primo ministro: sanno che Bibi, com’è soprannominato, è uno dei loro. Come nel 1996 con un discorso in cui ha smontato l’intesa di pace con i palestinesi ottenuta da Bill Clinton due anni prima, o nel 2015 quando ha attaccato l’accordo sul programma nucleare iraniano voluto da Barack Obama. Parlare al Congresso perché gli israeliani intendano: nel 2011 Joe Biden, allora vicepresidente, lo ha ascoltato senza sorridere e senza applaudire mentre escludeva l’idea di un futuro Stato palestinese. Adesso fonti alla Casa Bianca – scrive la testata digitale Axios – provano a spiegare che la quarta celebrazione in Campidoglio a Washington non è un incentivo perché Netanyahu accetti la proposta per una tregua a Gaza delineata da Biden venerdì sera, e che la scelta dei tempi, quando lo Shabbat era già cominciato in Israele, non è stato un trucco per evitare le reazioni immediate di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, i due ministri messianici e oltranzisti contrari a qualunque cessate il fuoco.
I consiglieri del presidente e fonti israeliane dicono al quotidiano Haaretz che l’annuncio è stato coordinato con Netanyahu. Washington avrebbe informato anche Yoav Gallant, il ministro della Difesa, e Benny Gantz, tutti e due siedono nel consiglio di guerra ristretto. Gli americani sarebbero rimasti delusi dalla freddezza iniziale dell’ex capo di stato maggiore, che considerano il possibile successore di Bibi: solo ieri sera ci ha messo la faccia e il sostegno convinto. Il documento non prevede il ritiro immediato totale, come chiede Hamas: durante i 42 giorni iniziali le truppe lascerebbero i centri abitati e si posizionerebbero sul perimetro attorno ai 363 chilometri quadrati. Gli sfollati avrebbero la possibilità di tornare nel Nord devastato e gli aiuti umanitari aumenterebbero. Netanyahu dipende dai voti degli estremisti per restare al comando. Ieri pomeriggio i fedelissimi del capo rilanciavano obiezioni via social media con la solita accusa al leader americano di voler bloccare Israele prima che raggiunga quella «vittoria totale» promessa dal premier.
Di sicuro Bibi sta studiando il calendario: se l’accordo con i fondamentalisti venisse implementato, la prima fase porterebbe via sei settimane. Abbastanza per arrivare vicino al 28 di luglio quando il parlamento va in vacanza e torna a riunirsi in ottobre. Il piano Biden parla di «cessate il fuoco permanente» da raggiungere solo nello stadio successivo. Fino a quel momento Netanyahu può ripetere di non aver accettato di fermare il conflitto e tenersi stretti gli alleati ultrà. Anche se la Knesset venisse sciolta in autunno, gli israeliani andrebbero alle urne tre mesi dopo.
E il primo ministro più longevo della Storia di Israele aggiungerebbe qualche mese ai 18 anni in totale al potere.